francesco rapiti, l'uomo delle favole (stefano cazzato)

Non fidatevi di una casa nel bosco sulla destra! Può essere sinistra!

Francesco Rapiti, L’uomo delle favole, La ragnatela 2018

 

In un’operetta giovanile, “Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime”, Kant afferma che non è solo il bello a produrre nell’animo umano esperienze, riflessioni, conoscenze, ma anche il sublime, ciò sta sotto o sopra il limo, la soglia, il limite, cioè l’illimitato, lo sproporzionato, lo spaventosamente grande, fuori misura, inconcepibile e via dicendo con tutti i sensi metaforici. Distingue quindi un sublime matematico, un sublime nobile, un sublime terribile: il grande, eroico, l’orrido, Poi identifica l’orrido con la notte, le tempeste, le montagne innevate, i cieli in tempesta, la natura ribelle, un castello misterioso, i fantasmi e anche qui via dicendo. E’ questo che ci interessa perché qui abbiamo a che fare con un romanzo gotico o thriller, un thriller di ambientazione gotica. Una premessa. Ormai tra  la fiction e la cronaca, una cronaca che supera l’immaginazione, come si dice,  abbiamo fatto l’abitudine con delitti, commissari, efferatezze, indagini, ipotesi sbagliate, depistaggi, momenti di suspense, sangue insomma con un plot classico. Sembra di trovarci davanti a un genere che abbia già dato tutto, detto tutto, inflazionato, ha infatti una lunga storia, una tradizione gloriosa, vanta grandi nomi, anche in Italia.

Eppure quando ci si mette a leggere un nuovo romanzo i dubbi passano perché il genere avvince, l’inchiesta prende, e, come dice Kant, ci si lascia andare all’immaginazione, alla riflessione, si fa uno sforzo di comprensione e di anticipazione, si esercita un pensiero valutativo, ipotetico, critico, un pensiero della possibilità, ci si lascia andare soprattutto all’evasione, all’infinito intrattenimento, per dirla con Maurice Blanchot, alle atmosfere, soprattutto se è un bel thriller e questo lo è. Per alcuni motivi che dirò. Intanto per una narrazione corale, affidata a una galleria di personaggi, il che ci consente di entrare nella loro psicologia direttamente, attraverso la porta principale. Poi, per restare ai personaggi, sono ben caratterizzati, in modo credibile, convincente. Quindi, per la maestria con cui l’autore combina, secondo la tecnica del pastiche, tutti i topoi del genere e dei sottogeneri vicini come il gotico, il fantastico, il macabro, il pulp, lo splatter, l’horror, il satanista, il deforme, il macabro. 

Una serie di delitti di vittime innocenti uccise così come si uccide nelle fiabe, una sbranata da un lupo, un’altra con una mela avvelenata, un’altra con un fuso e fatta annegare nell’acqua, un’altra infilata in un forno caldo, un’altra fatta morire sotto pesanti assi di legno che le sono stati fatti crollare addosso; tutte donne tranne un uomo, tutte accusate di aver schiaffeggiato bambini o di aver fatto loro qualche forma di violenza; poi un agente, tra gli altri, che indaga, un uomo in crisi esistenziale, ridotto a una larva, scioccato da qualcosa, mandato lì qualche tempo prima per espiare una colpa, o per non fare danni nei posti che contano; un agente che però un tempo è stato un grande, un eroe della giustizia e della legge; al suo fianco una donna dal passato non proprio specchiato; poi una scrittrice senza successo (che introduce un elemento postmoderno, la scrittura nella scrittura, il libro nel libro) chiamata da un misterioso personaggio a scrivere su un’isola deserta l’epitaffio sulla tomba di un bambino, epitaffio per il quale riceverà molti soldi (ma si tratta di una trappola); una setta di satanisti drogati, lussuriosi, di figli di papà, capeggiati dal figlio di un barone che vive in un castello isolato; una troupe televisiva che trasforma i luoghi del delitto in un set cinematografico;  e c’è poi il luogo, Little Wood, un piccolo centro, dove regna sovrana la routine, una routine sospetta, sinistra, un Eden annoiato, dove tutti si conoscono, dove non accade niente, un posto dove il crimine più grave che si ricordi a memoria d’uomo è il furto di un chevingum in un supermercato.

Ma cos’è Little Wood, non è forse il fuoco sotto la cenere, l’animo umano  come un teatro di guerra, il cuore di tenebra, dove il male alberga in qualche retrobottega, in qualche piega, quel male che ha perso la battaglia ma non la guerra, e pretende la sua rivincita, e ritorna sempre insolito, terribile, incomprensibile, lucido nella sua follia, banale nella sua orchestrazione, dimostrando che il bene, anche quando è stato conquistato, con la civilizzazione, la moralità, l’educazione, non è mai redento hegelianamente, composto, sintetizzato, superato,  anzi è sempre fragile ed esposto al suo opposto, messo sempre sotto pressione. L’antitesi che resta antitesi. 

Ecco allora che un romanzo di genere, come ci hanno insegnato in tanti, non è solo un romanzo di genere  perché consente una riflessione che va oltre se stesso, la sua trama, i suoi personaggi, le sue atmosfere; una riflessione sul male, sulle sue origini, sulla sua fenomenologia, sul peccato, sulla caduta dell’uomo, sull’urgenza di giustizia dei nostri tempi, sulla colpa, la responsabilità, sull’indifferenza, cioè su quella forma di male che sta nell’omissione, nel silenzio, nella connivenza (ci sono nel romanzo personaggi equivoci, grigi, tra bene e male, non schierati, non malvagi, ma pigri, conformisti, allineati).

Chiaramente la domanda madre che pone  è: da dove viene il male? Agli esseri umani fa piacere credere che il male venga da fuori o dall’alto o dal basso; che la colpa del male sia sempre d’altri, che l’avversario sia sempre fuori; che ci sia un Dio o un anti dio all’origine del male, il diavolo o qualcosa di più impersonale come la follia o la malattia (ma il malato spesso è diventato malato, c’è stato un momento in cui non lo era o poteva non esserlo), o che il male sia dovuto a una deviazione dalla natura.

Quello che spaventa e pone problemi etici è che il male sia nella natura o sia la natura, che il male non sia speciale, ma normale, faccia parte della normalità, che, come diceva Arendt, un uomo non mostruoso faccia cose mostruose. 

Martin Heidegger nella sua analitica esistenziale parlando della morte diceva che l’uomo non dice mai “io muoio” ma si muore  relegando così nella sicurezza dell’impersonale, dell’oggettivo, dell’anonimo, un evento che lo riguarda, soggettivo per eccellenza. Ebbene col male ci comportiamo allo stesso modo; diciamo “c’è il male”, “il male esiste”, “nella vita c’è il bene ma anche il male”, “c’è”, “esiste”.

Ma non diciamo mai “che cosa c’entro io col male”, “il male può venire anche da me”, “anch’io posso essere l’origine, la fonte del male, contiguo al male o un complice del male”.

Ascrivendo il male all’ontologia lo allontaniamo dalla vita, facendone un vizio dell’universo o della storia lo disincarniamo, lo smaterializziamo, lo spersonalizziamo.

Questa declinazione del male nelle sue forme, anche le più macabre, con tutto quello che il male si porta dietro, fa sì che il thriller non sia mai morto, anzi è sempre vivo, forte, resiste alle critiche della Critica alta, anzi sia diventato il genere della contemporaneità, perché ci parla della condizione umana, dei suoi fantasmi, delle sue pulsioni, dei suoi nodi irrisolti.

Non è tutto horror quel che luccica, come dimostra questo bel romanzo di Rapiti. C’è dell’altro.

Un romanzo d’intrattenimento che fa anche riflettere i lettori, li allerta, li sensibilizza. Non tutto il male, insomma, vien per nuocere.

Stefano Cazzato

 

 

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