Max sweet love, Mario Corvini NTJO, Auditorium PdM Roma 6.5.2017

Max sweet love: Mario Corvini New Talent Jazz Orchestra, Auditorium Parco della Musica, 6 maggio 2017. Con Maurizio Urbani, letture Paola Musa.                                                                              

Be bop, roba americana, musica nera 

“Con due note ti sdraiava”, così il direttore della New Talent Jazz Orchestra, Mario Corvini, ha sintetizzato la forza, il timbro, l’intensità, l’originalità, il lirismo del sax contralto di Massimo Urbani, “il talento dei talenti” morto per overdose nel 1994.

 

Max viene ricordato in un concerto di giovani solisti intercalato qua e là dalla lettura di alcuni passi del libro di Paola Musa (“Go Max Go”, Arkadia, 2016) che in forma romanzata narra la vita estrema del musicista romano: dal momento in cui scoprì su “Musica jazz” l’esistenza di un certo Charlie Parker e se ne innamorò a quello in cui, appena tredicenne, si infilò nelle prove del vibrafonista Spoto, e venne subito notato per il suo fraseggio “inaudito”, da quella volta in cui Enrico Rava lo portò a 17 anni in America agli incontri romani con Chet Baker, dall’amicizia fraterna con Enrico Pieranunzi, cui si rivolgeva nei momenti di disperazione, a quella notte in cui svegliò il fratello Maurizio nella irresistibile ma vana ricerca di trovare un club aperto per improvvisare una session, dal clima avvincente e libertario della musica degli anni Settanta al conformismo e alla sete di successo degli Ottanta cui Massimo si sentì subito estraneo, tanto quanto si era sentito dentro lo spirito del decennio precedente.

E poi la musica di Urbani, “l’inquietudine sotto il controllo della forma”,  i suoi dischi, i suoi pezzi, i suoi struggenti, e talvolta onirici, arrangiamenti, il tutto recuperato e talvolta riarrangiato dai giovani talenti cui per l’occasione si sono aggiunti tre solisti: il fratello di Massimo, il sax tenore e soprano Maurizio Urbani, il giovanissimo pianista Vittorio Solimene e l’eccellente sax contralto napoletano Luigi di Nunzio.

Tra standard da brivido (Lover man, Body and soul, Recordame) e  brani di Massimo (Incuentro, Invitation, Jorgelina), tra qualche sprazzo di nostalgia e il futuro del jazz italiano incarnato da giovanissimi che già rivelano ottime potenzialità (chissà se tra loro si nasconde un nuovo Massimo o almeno qualcuno che gli si avvicini), la sensazione è che Massimo Urbani abbia lasciato nella musica italiana, in chi lo ha conosciuto, ascoltato e in chi, ancora - e sono in tanti - continua ad ascoltarlo, un ricordo veramente sincero e immenso, e bene hanno fatto e fanno generazioni di musicisti a omaggiarlo periodicamente, nonostante non manchino su Youtube delle sue toccanti interpretazioni tra cui quella della fabbrica abbandonata dove, sullo sfondo di una Roma desolata e accecante, suona dolente “Estate” di Bruno Martino.  

Ero ancora molto giovane quando capitai, forse per caso, nel club di un piccolo paese di provincia (Tricase, Lecce):  si chiamava “Starry night”, mi sembra.  Allo Starry avevo conosciuto la mia prima fidanzata ed è forse per nostalgia che quella sera ci ero tornato con un amico. Qui, a pochi metri da casa mia, suonava un certo Massimo Urbani, uno che di nostalgie se ne intendeva. Non sapevo nulla di lui, all’epoca. A saperlo che era il più grande di tutti avrei portato una macchina fotografica, girato un video (e oggi lo avrei messo anch’io su Youtube), mi sarei fatto fare un autografo, scambiato due parole. Ma forse quella sera servì solo per farmi appassionare al jazz, anzi al Be Bop, “roba americana, musica nera”, come rispose l’edicolante romano a Massimo quando gli chiese cosa suonava questo Charlie Parker prima di comprare “Musica jazz”. Da lì, da quella richiesta curiosa e innocente di un ragazzino, sarebbe partita questa storia tragica e bella. 

Stefano Cazzato

 

 

 

 

 

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