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PAT METHENY, UNITY SESSIONS, Nonesuch Records 2016

 

Non siamo soliti parlare di album pubblicati 1000 giorni fa poiché spesso sono già tante le informazioni in merito che le nostre risulterebbero pleonastiche e sovrabbondanti. Nel caso della performance UNITY SESSIONS di Pat Metheny con la band  del progetto relativo il caso è però diverso perché, “a lume di naso”, in pochi si sono accorti di questa produzione ed in pochi hanno creduto opportuno parlarne. E, visti i risultati commerciali ed estetici  del doppio cd, ne possiamo anche intuire le motivazioni.

Pat Metheny spesso e volentieri ha cercato altre onde emotive per tracciare un nuovo percorso per il suo World Jazz, mordendo quella versatilità del suo Sistema con riverberi al limite dei limiti, ignorando la paura dell’errore e l’uscita, più o meno definitiva, dagli schemi della Fusion in cui aveva  trovato consenso di pubblico, e più che meritatamente.

Ora, finalmente archiviate certe  circonlocuzioni cerebrali suggestionate dal Free Jazz di Ornette Coleman (“Song X”, Geffen Records 1986) e dall’acido e antipatico macchinoso “Orchestrion” (Nonesuch 2010), Metheny cerca di dare Blue Notes all’esecuzione, un pensiero che vorrebbe ancora una volta unire Avanguardia e Classicità, come nella sua Idea sempre blasonata nel Sound sciamanico di “tutti i paesi del mondo”.

Ci riesce? Ci prova, sicuramente. E questo è già un merito. Ma trovare quella purezza d’armonie e di dialogo che hanno distinto la sua miglior discografia è ben altro discorso. Metheny convince a tratti, pur non potendo noi non riconoscere musica ad alta tensione, pur cercando nell’improvvisazione il dialogo con un Quartetto cui manca, e tanto, l’eccezionale contributo di Lyle Mays, il Gran Maestro che ha dato bellezze ineccepibili a dischi quali “Watercolours” (ECM 1977), “First Circle” (ECM 1984), “Imaginary day” (Warnes Bros, 1997),”Secret Story” ( Geffen 1992); album che non possono mancare negli scaffali di ogni amante del New Jazz.

Con questo doppio album Metheny conclude il trittico iniziato con "Unity Band" nel 2012 e proseguito con "Kin", vergando le tipiche luci ed ombre talora autoreferenziali di un musicista a fine tour, dopo ben 150 performance in giro per il mondo. Forse troppe per chiunque, forse troppe per riflettere a fondo su un doppio live registrato in un teatro senza pubblico, avendo noi la sensazione che con l’apporto di quest’ultimo probabilmente il calore sarebbe stato certamente più intenso e, come ne consegue dal lato stilistico, più immediato, più coinvolgente. In ogni caso son sempre ben due ore di musica che non possono essere ignorate dai filologi del sound dell’eclettico chitarrista americano; due ore che danno comunque da pensare circa il complesso equilibrio che anche i migliori  strumentisti devono raggiungere attraverso lo studio (certamente: lo studio) e la meditazione sui propri calibri estetici e le proprie risorse emotive.

Si dirà che, certo, la chitarra synth di Metheny è in grado di creare spazi stellari ed interstizi spirituali ben definiti, avvolgenti, godibili, accessibili grazie ai saggi e piacevoli registri usati…ma qualcosa manca, forse quel viaggio intercontinentale dell’ecologia Bossa Nova dei tempi migliori, il rimando ad una Passione priva di manierismi e più ricca di Blues e di spontaneità; forse, anche di modestie esistenziali.

Chiaro che quando suona Metheny ognuno può alzarsi in piedi e cogitare sugli Elementi più innovativi del Nuovo Jazz; chiaro che Metheny è un maestro indiscusso di Forma ed Eleganza; chiaro che Metheny è sempre in grado di scegliere Modi inusuali di creare ampi tappeti sonori le cui Varianti, pur non più stupendo, ammaliano chi ascolta. Ma, questo il punto, perché mai incidere un terzo rischioso volume coinvolgendo eccellenti strumentisti quali Cuong Vu alla tromba, Chris Potter al Sax e Antonio Sanchez alla batteria per coronare una pagina in definitiva problematica e dedicata soprattutto a se stesso e dai quali avrebbe potuto ottenere ben altri esiti creativi, così come in “Kin” , indice ideologico del disegno “Unity”, o nel pur seducente crepuscolare (ma “neoclassico” e tutt’altro che brillante per quoziente innovativo) di “This belongs to you” , nel richiamo solistico bachiano déjà écouté di “Adagia”, nel solito Free aspro e dissonante di “Genealogy”? In questo senso le Regole Aristoteliche reinventate da Pat Metheny possono anche sembrare rispettate: ma l’Arte non può più essere Imitazione neanche di se stessa, non può più essere Esecuzione senza Interpretazione, e tanto meno privilegiare il Concetto piuttosto che l’Emozione.

Non siamo certo noi a voler difendere le star né a giustificare le divagazioni che reputano, magari all’ultimo minuto, essenziali per il proprio futuro; né siamo noi a censurare ricerche che, al momento attuale, appaiono ancora approssimative sebbene ricche di forti intuizioni e di una classe esecutiva che conosce ben pochi confronti.

Però, diciamolo sinceramente al di là di qualunque certezza di Piacere istantaneo: Noi conosciamo un altro Pat Metheny.  

Fabrizio Ciccarelli

Pat Metheny: Electric and Acoustic Guitars, Guitar Synth, Electronics, Orchestrionics

Chris Potter: Tenor Sax, Soprano Sax, Bass Clarinet, Flute, Guitar

Antonio Sanchez: Drums and Cajon

Ben Williams: Acoustic and Electric Basses

with Giulio Carmassi: Piano, Flugelhorn, Whistling, Synth, Vocals

Acoustic  Bass and Bass: Ben Williams

All music composed and arranged by Pat Metheny (Pat Meth Music Corp. [BMI]), except “Police People,” composed by Ornette Coleman and Pat Metheny (Phrase Text Music), and “Cherokee,” composed by Ray Noble (Shapiro Bernstein & Co. Inc.)

Disc 1

  1. Adagia 2:08
  2. Sign of the Season 10:42
  3. This Belongs to You 5:39
  4. Roofdogs 7:50
  5. Cherokee 5:02
  6. Genealogy 2:04
  7. On Day One 15:18
  8. Medley 10:52

 

Disc 2

  1. Come and See 12:55
  2. Police People 2:52
  3. Two Folk Songs (#1) 4:58
  4. Born 7:51
  5. Kin 11:06
  6. Rise Up 12:28
  7. Go Get It 4:18

 

 

 

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