matteo portelli_e qualcuno poi disse

Matteo Portelli, E qualcuno poi disse, 2020

Musicista, compositore, produttore e fonico, Matteo Portelli ha suonato negli ultimi 15 anni come bassista e tastierista in diversi gruppi della scena indipendente italiana (MiceCars, Yuppie Flu, Mamavegas). Attualmente è impegnato con “Smalto”, un trio di pop elettronico, con il quale ha pubblicato i primi due singoli, e sta ultimando la produzione del primo EP. Scrive e produce colonne sonore e sonorizzazioni per spettacoli teatrali (in particolare con l'associazione “Asinitas ONLUS”, laboratori e spettacoli di teatro sociale), cortometraggi, documentari, cartoni animati.
Gestisce lo studio di registrazione “The White Lodge” a Roma, occupandosi di produzioni, registrazioni e mix.

E qualcuno poi disse è un brano di Gianni Nebbiosi, estratto dall'album “E ti chiamaron matta” (Dischi del Sole, 1971), un testo di grande interesse sul disagio mentale scritto nel periodo dei movimenti di liberazione tra fine 60 e primi del 70, recentemente reinterpretato dal trentottenne musicista romano.

Questo il link al video: https://www.youtube.com/watch?v=1zkrbTb-z0g

 

Abbiamo occasione di parlarne con lui.

d. Da quanto tempo pensavi di realizzare questa cover così particolare ed importante?

r. C'è una data precisa: dal 9 gennaio 2019! Quella sera ero fonico al concerto di Giovanna Marini e Sara Modigliani al Teatro Torlonia: hanno suonato “E qualcuno poi disse”, un brano di Gianni Nebbiosi sui manicomi, sull'internamento. Conoscevo già questo brano, ma quella sera mi ha colpito in profondità; mi sono venuti i brividi, mi veniva da piangere. E ho pensato immediatamente che volevo suonarlo, cantarlo, entrarci in contatto più stretto. Pochi giorni dopo ho chiamato Nebbiosi, che mi ha dato il “permesso”, e ci ho provato per un po' di tempo. Ma non veniva nulla che mi sembrasse all'altezza dell'originale; ho lasciato perdere. Poi a marzo 2020 siamo rimasti chiusi in casa per l'emergenza Coronavirus e quell'idea è tornata a galla, ma stavolta è venuto tutto più facile, più scorrevole. Come se la cupezza e l'angoscia di questo testo avesse uno spazio più adeguato.

d. Perché questa scelta?

r. Perché è una bella canzone, ricca armonicamente e melodicamente, ma soprattutto con un testo potente. E' un testo dall'atmosfera cupa e tetra, rotta solo da pochi raggi di speranza. Forse, inconsciamente, volevo anche io parlare di questo senso di reclusione, quella che stiamo vivendo, in modo indiretto e implicito. Nei primi giorni di lockdown ho sentito tanti musicisti cercare di esprimersi sul tema, in modi che spesso mi sono sembrati troppo poco elaborati e interessanti, frettolosi, poco curati, per quanto ovviamente legittimi e magari sentiti. Chiaramente abbiamo vissuto, e stiamo vivendo, un'esperienza assurda, che ha bisogno di trovare uno sfogo artistico. Credo che questo sia stato il mio modo di sfogare il mio senso di oppressione.

d. Come ha preso vita la tua idea sull’arrangiamento, sostanzialmente rispettoso dell’edizione originale ma comunque dettato dai tuoi gusti musicali? Visto che ci siamo: in quale Musica ti riconosci?

r. Ha preso vita senza che ci pensassi troppo. L'unica vera scelta è stata quella di rallentare drasticamente la canzone, per dilatare il più possibile l'atmosfera, e ho cercato di aggiungere solo una piccola parte melodica che legasse la melodia originale al ritmo che stava venendo fuori. Nella versione originale c'è una tensione diversa, è più veloce, più scattosa, e si crea più contrasto, almeno secondo me, tra testo e arrangiamento. A posteriori mi viene da pensare che questo rispecchi la differenza tra il 1971 e il 2020, tra una storia concreta e reale e una sua rilettura più immaginifica e simbolica. Io uso molto l'elettronica e i synth, cercando di unire la ricerca della canzone con la profondità della stratificazione dei suoni. Non so dire veramente in quale musica mi riconosca, sono cresciuto con la New Wave, il Dark, il Punk; poi sono arrivati i Radiohead, l'elettronica che si fonde appunto con la canzone, ma sono passato per il post-rock, per l'Indie, e ascolto musica abbastanza eterogenea. Credo che il filo conduttore sia questa ricerca dell'intreccio tra canzone (quindi anche pop, rock) e raffinatezza e complessità musicale.

d. Questa tua cover (ma non mi piace in realtà chiamarla così, direi piuttosto “rilettura”) è destinata a rimanere un’avventura del momento o può far parte di un progetto futuro?

r. Rilettura sì. Anche io ho difficoltà a definirla cover! Non lo so in realtà, mi piacerebbe riprovare ad affrontare un'altra canzone di Nebbiosi, magari la bellissima “Ti ricordi Nina”. Ci proverò e vedremo se è stata un'avventura del momento o meno, forse sarebbe troppo ambizioso trasformare questa cosa nata in modo molto spontaneo in un vero e proprio progetto. Di certo è da tanto, da quando ho smesso di suonare con la mia band storica, i Mamavegas, che giro intorno alla possibilità di fare musica e canzoni da solo. Ma la realtà è che il confronto, l'interazione e la contaminazione sono fondamentali per il mio modo di suonare, e alcuni tentativi di produzione autonoma che ho fatto risentivano di questa mancanza. Forse ancora non è il momento, forse non lo sarà mai. E poi io non sono un cantante vero e proprio. Mi piace cantare, mi sono lentamente abituato al suono della mia voce, e mi diverto, ma non sono sicuro di riuscire a sostenere un ruolo del genere da solo.

d. Più in generale, qual è il futuro della tua musica?

r. La musica fortunatamente è parte integrante della mia vita. Ho avuto il privilegio di farne il mio lavoro. Anche produrre gruppi e cantautori mi permette di fare musica anche quando non faccio cose strettamente mie. Ma soprattutto sto cercando di dedicarmi alla composizione, colonne sonore, sonorizzazioni. In particolare da qualche anno faccio l'accompagnamento musicale per spettacoli teatrali realizzati in laboratori di teatro sociale, con l'associazione “Asinitas ONLUS”, che lavora prevalentemente con migranti, ed è un'esperienza stupenda, sempre varia, ogni anno registi diversi, contesti diversi, e che mi ha portato a conoscere un mondo nuovo e un approccio diverso alla musica. Ma sto anche portando avanti progetti come band, sia in un ambito più pop, con Smalto (che però è un progetto “a distanza”, con due musicisti di Battipaglia, e che quindi non so se potrebbe avere uno sviluppo live), sia in un altro più sperimentale, con un gruppo che stavamo iniziando a mettere su poco prima del lockdown, e che spero ripartirà al più presto, elettronica, brani strumentali magari, non legati alla forma canzone, e che dovrebbe riportarmi a suonare su un palco, che è una cosa che mi manca terribilmente.

Fabrizio Ciccarelli

Gianni Nebbiosi (Roma, 1944) è uno psichiatra, cantautore e musicista italiano, esponente, in particolare, della canzone sociale.

Nel 1972, studente di Medicina interessato ai problemi della condizione di vita nei manicomi, esordisce con un album prodotto da Giovanna Marini: “E ti chiamaron matta”. L’album dette il suo contributo a quel movimento che, negli anni 70 in Italia, portò in pochi anni alla Legge Basaglia ed alla chiusura dei manicomi. Di soli sei brani, testo e musica di Gianni Nebbiosi (voce, clarinetto, pianoforte e organo elettrico). Unica accompagnatrice Giovanna Marini alla chitarra e seconda voce.

Due anni dopo Nebbiosi pubblica un altro album, “Mentre la gente se crede che vola”, contenente canzoni di argomento più generale. Tra esse, spiccano “Ma che razza de città” e “Er verniciaro”, in dialetto romanesco. Nebbiosi canta e suona il pianoforte e l’organo. E’ accompagnato da alcuni artisti del Canzoniere del Lazio, quali Carlo Siliotto (chitarra), Glauco Borrelli (basso), Marcello Vento (batteria), Sara Modigliani (flauto) e da Carlo Magaldi (chitarra acustica folk).

Successivamente Magaldi e Vento formano gli Alberomotore. Per questa formazione, Nebbiosi scrive i testi dei sette brani dell’album “Il grande gioco” (1974), con musica di Ricky Gianco ,inciso nella sala prove del parco della sua tenuta.

Tra il 1974 e il 1976, Nebbiosi entra a far parte de “Il canzoniere del Lazio”. Suona il sassofono e le percussioni in “Lassa sta la me creatura”. Dopo di ciò interrompe la sua attività musicale per esercitare esclusivamente la professione di medico psichiatra. Ora è presidente dell'ISIPSE- Istituto di Specializzazione in Psicologia Psicoanalitica del Sé e Psicoanalisi Relazionale.

Fa un’apparizione nel 1998 cantando “E qualcuno poi disse” e suonando piano e clarinetto nel CD “Compagni dai campi e dalle officine” (Hobby & Work) ove compaiono Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, Giovanni Poggiali, Alfredo Bandelli, Diego De Palma, Fausto Amodei, Alberto D’Amico e Gualtiero Bertelli.

Nel 2006, Sara Modigliani ripropone “Ma che razza de città” in un album dal titolo omonimo. Nel 2018 Francesco De Gregori inizia il suo tour a Roma interpretando “Ma che razza de città”.

Questo il testo della canzone:

Fu l'idea di vedere i tuoi occhi

di abbracciare la nostra creatura

che mi diede la forza e il coraggio

di andar contro la natura

di sorridere agli infermieri

di pesare ogni parola

e alla notte ogni grido che usciva

ricacciarmelo dentro in gola.

 E qualcuno poi disse

 « Guarda lì l'agitato:

 son passati otto mesi,

 sembra un po' migliorato ».

Fu l'idea di vedere i tuoi occhi

di giocare con la bambina

che mi fece ingoiare in silenzio

ogni loro medicina

e mi diede la forza e il coraggio

di rispondere senza urlare

al dottore che aveva schedato

la mia malattia mentale.

 E un bel giorno venisti

 col tuo abito a fiori

 mi prendesti la mano

 mi portasti di fuori.

Ma di fuori la voglia di uscire

si trasforma in voglia di pane

ma il discorso era sempre lo stesso:

« Torni fra due settimane »

Imparai a riconoscere presto

dietro a quello strano impaccio

una legge senza parole

fredda e dura come il ghiaccio.

 Quella sera, ricordo,

 tu dormivi al mio fianco

 ma la stanza girava

 e di colpo fui stanco.

Furon sempre le stesse facce

a legare questo mio male

e la stessa iniezione nel braccio

a condurmi all'ospedale

con lo stesso soffitto imbiancato

con gli stessi scarabocchi

dove ormai le paure e il silenzio

nascondevano i tuoi occhi.

 E qualcuno poi disse:

 «Guarda lì l'agitato:

 son passati otto giorni

 e c'è già ricascato».

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