I filosofi e la musica: Dewey di Stefano Cazzato

I filosofi e la musica:John Dewey

Dove metto il jazz? 

Siamo abituati a pensare che l’arte sia un’attività lontana dalla vita, soprattutto lontana dalla vita delle masse cui sembra preclusa la contemplazione estetica a vantaggio di divertimenti semplici e istintivi. Ma l’arte, in tutte le sue articolazioni e varianti, nasce della vita e della vita parla, benché si cerchi in vari modi di metterla “su un remoto piedistallo”. Piedistallo cui possono elevarsi - si dice erroneamente -  soltanto certe aristocrazie dello spirito, capaci per costituzione ed educazione di sentire “l’ideale” che emana dall’arte, mentre “il materiale” viene lasciato alle folle.

 

Da questo pregiudizio ne deriva un altro e cioè che esistano, ben distinti e rigorosamente separati, l’alto e il basso, il canone e il contro-canone, il colto e il popolare, il sapere che rigenera l’anima e quello degenerato che la travia, con la conseguenza che si nega dignità artistica a una gran quantità di esperienze creative che vengono derubricate a livello di prodotti commerciali e banali.

Ora, che possa esistere della spazzatura elevata al rango di arte, è sempre possibile. E va da sé che, nell’epoca della super-riproducibilità tecnica dell’arte, qualche regola vada pure stabilita, qualche confine tracciato, qualche prudenza ermeneutica adottata. Ma è altrettanto possibile, anzi assai frequente, che a causa di regole troppo strette, di confini troppo rigidi e di prudenze fin troppo elitarie si finisca per non vedere se c’è in giro nuova arte oltre a quella che è “relegata nei musei e nelle gallerie”.

L’espressione è di John Dewey  cui si deve anche quell’altra, che parla dell’arte messa “su un remoto piedistallo”. Di questo rischio il filosofo americano ci avvertiva già nel 1934, scrivendo  che “le arti che oggi hanno la maggiore vitalità sono cose che il pubblico medio non prende per arte: per esempio il cinema, la musica jazz, l’appendice umoristica, e, troppo spesso, racconti giornalistici di amorazzi, assassinii e gesta di banditi” (“Arte come esperienza”, La Nuova Italia, 1995, p.8).

Chi l’avrebbe detto che quelle arti sarebbero oggi diventate le nostre arti? Dove mettereste oggi il jazz? Nell’alto o nel basso, nel colto o nel popolare, nel canone o nel contro-canone? E se lo mettessimo su un piedistallo? E se provassimo, invece,  a fare a meno proprio del piedistallo?

 

Stefano Cazzato

 

 

 

 

 

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