T.W.Adorno,Quel borghese di Charlie Parker! I filosofi e la musica, di Stefano Cazzato

I filosofi e la musica

T.W.Adorno: quel borghese di Charlie Parker! 

Condivido quasi tutto di Theodor Adorno. Il rigore, la profondità, la trasversalità del metodo che dall’alto al basso, da una disciplina a un’altra, dalla visione globale al dettaglio, dal passato al presente, non lascia nulla di impensato e di intentato in vista di una rivoluzione delle menti e, tramite le menti, della società. La bellezza della scrittura.

 

I suoi “Minima moralia” sono un capolavoro di stile, di acutezza, di umanità, piccoli bagliori, se paragonati alla vastità e alla diffusione del male, di resistenza alle umiliazioni della “vita offesa”. Adorno è il pensiero critico in persona, quel pensiero che da Francoforte in poi non fa concessioni e non sopporta pregiudizi, sceglie con chiarezza da che parte stare e smaschera l’ideologia e, pur ascoltando e difendendo le masse, diffida della massa e non ne segue le mode.

Ma c’è un aspetto su cui non proprio riesco a essere d’accordo con il grande Teo, cioè posso capire e apprezzare il suo punto di vista e persino giustificarlo alla luce del suo rigore e della sua inflessibilità, ma emotivamente no, non ce la faccio. Sarò anch’ io vittima della seduzione capitalistica e del lavaggio del cervello che l’industria culturale esercita sugli esseri umani e soprattutto sui sentimentali come me, ma l’idea che anche il jazz sia subalterno al pensiero dominante e faccia il gioco degli oppressori proprio non mi va giù se solo penso a Charlie Parker e a Duke Ellington, ma anche ad Art Pepper e a Stan Getz, a Billie Holliday e a Miles Davis e a tanti altri giganti, bianchi e neri, uomini e donne, di oggi e di ieri.  

Come faccio ad essere d’accordo con Teo quando dice che le improvvisazioni sono in gran parte regolamentate e si ripetono sempre” e che in fondo il jazz non fa altro che praticare dei” tagli particolari” a un vestito che alla fine è sempre quello. Varianti sì ma all’interno di una norma codificata, dove la norma è sempre quella ideata, progettata e difesa, più o meno subdolamente, da una borghesia straconsapevole, a differenza dei dominati, della forza della cultura come “instrumentum regni”.

E se l’ideologia si liberasse dai suoi ideologi? E contraddicesse il canone? E se le sovrastrutture, stanche di servire la struttura e la sua classe, decidessero a un certo punto di prendere la propria strada e di servire altri ideali, altri soggetti, altre esigenze storiche? E’ stato detto e ribadito più volte che questo accade, nelle religioni come nella musica, nell’arte come nella letteratura, e che il rapporto tra potere e cultura non è un automatismo e un destino e che tra l’uno e l’altra ci sono sempre cose importanti come la scelta, la responsabilità, la libertà, la creatività irrefrenabile degli individui più tutte le variabili insospettabili di questo mondo.

Ma non è su questa strada che vorrei dire il mio sommesso no ad Adorno. Voglio, una volta tanto, parlare il linguaggio dell’emozione e anteporlo a quello della ragione, il linguaggio di quello che ci piace e ci fa felici e ci commuove (anche se della nostra felicità potrebbe godere in ultima istanza solo la borghesia).  La realtà è che rispetto al jazz, ma anche al pop e al rock, e persino a certe canzonette rilassanti e orecchiabili, non posso non dirmi borghese. E forse pochi, veramente pochi, possono in questo senso dirsi antiborghesi.

Queste considerazioni, che certo giacevano da tempo  in qualche retrobottega dell’anima, non  si sono risvegliate, come prevedibile, ascoltando un motivetto di quelli che ti mettono i brividi addosso ma leggendo un ottimo romanzo di Frank McCourt che scrive: “I Lennon adorano il jazz e quando stanno in soggiorno sembrano due professori matti, sempre a metter dischi e schioccare le dita a tempo, raccontandomi vita, morte e miracoli dei grandi musicisti che suonano su questo LP di Benny Goodman, Gene Krupa, Harry James, Lionel Hampton, lo stesso Benny. Questo, mi dicono, è stato il più grande concerto jazz di tutti i tempi, la prima volta che hanno concesso a un nero di salire sul palco della Carnegie Hall. E sentilo, sentilo, Lionel Hampton, che velluto di note scivolate, e senti come entra Benny, senti, e qua invece arriva Harry che ci infila qualche nota per dire attenti che adesso volo, attenti che volo, e Krupa fa bap-bap-bap-du-bap-di-bap, partono mani e piedi, e canta e canta e canta, e tutto il gruppo si scatena, bello mio, si scatena, e il pubblico, senti che pubblico, tutti impazziti, bello, tutti partiti.

Mettono Count Basie, alzano l’indice e ridono quando il conte suona quelle sue note solitarie mentre con Duke Ellington imperversano per tutto il soggiorno schioccando le dita e fermandosi ogni tanto a dirmi senti, senti che roba, e io ascolto come non avevo mai fatto e sento quello che non avevo mai sentito e non posso non ridere insieme ai Lennon quando i musicisti prendono il pezzo di una canzone e prima lo stravolgono poi lo rimettono a posto come per dire: Guarda, t’abbiamo preso un attimo in prestito la tua canzoncina per suonarla a modo nostro ma non ti preoccupare, rieccotela qua, continua a canticchiarla, ciccio, cantati il pezzo, bello”

Anche McCourt, irlandese poverissimo, emigrato in America appena adolescente, coi denti rotti e scuri e il freddo nelle ossa, scaricatore di merci al porto di New York prima di diventare professore in una scuola dai mattoni rossi, era un borghese? Anche i suoi romanzi, così caldi e lirici e coinvolgenti come il jazz, sono armi di distruzione delle masse? (F.McCourt, “Che paese, l’America”, Adelphi, 2003, pp.214,5) 

Stefano Cazzato

 

 

 

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