giuseppe cappello, il software della paideia

Il software della paideia

Qualora si voglia parlare in un linguaggio 2.0 della scuola come si è venuta configurando almeno nell’ultimo decennio, si può dire che essa oggi rassomigli molto a uno schermo del computer su cui aprano, in misura esponenziale, molti file; chiunque insegni sa quanti e quanto articolati siano i rivoli extracurricolari che ogni studente si trova sul suo screenshot; sa come su questo screenshot sia pure comparsa l’icona dell’Alternanza Scuola Lavoro e come dentro questo nuovo programma si sia verificata un’ulteriore moltiplicazione di file più o meno “craccati”.

 

Sull’Alternanza Scuola Lavoro, poco interessante appare la critica vetero-sindacale di ordine economicistico; varrebbe piuttosto la pena di interrogarsi in maniera più approfondita in merito alla valenza culturale dell’ASL e su quanto tempo, quante energie e quanta concentrazione essa sottragga all’apprendimento. In questo senso ci deve mettere in guardia l’ossimoro che si cela in ciò che viene pensato come alternanza. Ricordiamoci che scholè in greco indica proprio il tempo libero dal lavoro che la gioventù ellenica aveva a disposizione per costruire la sua paideia, la sua formazione (e che la gioventù europea fra Ottocento e Novecento ha guadagnato grazie a tante vere battaglie del diritto).

Ebbene, di fronte a questa schermata che si fa e si disfa ogni giorno sul desktop degli studenti, credo che probabilmente sia venuto il momento di interrogarsi sulle condizioni in cui versa la mano che si poggia sul loro mouse, chiedersi se quella mano non stia lentamente precipitando in quel movimento compulsivo che purtroppo, come sempre più spesso vediamo, rende gli studenti prigionieri dei loro smartphone anche a scuola. Né dobbiamo, credo, seguire la strada di una mera sovrapposizione tra la logica della comunità scolastica e quella delle social communities, lungo la ‘cattiva infinità’ (3.0, 4.0 e così di seguito) dei modelli finlandesi, che sembrano sempre più modernizzare la scuola in misura direttamente proporzionale alla sua “de-biologizzazione”, riducendo la vita, il bios appunto, a mera res extensa. Sappiamo in che termini esistenziali i paesi scandinavi paghino in una qualche misura la loro algida organizzazione.

Al disteso movimento razionale non ci sembra opportuno sostituire il compulsivo e schizofrenico vortice digitale. Un vortice schizofrenico nel senso della frantumazione della identità didattica degli studenti. Ci sembra appunto già di vedere, nel loro procedere, finestre che si aprono e si chiudono in maniera frenetica, senza che gli studenti stessi conservino il possesso della loro attività. Lo stesso accade anche ai docenti, quasi che, nell’intrecciarsi di file che si aprono e si chiudono a ogni intrapresa della nuova scuola, non vi sia più, fra discenti e docenti, una mano consapevole sul fatidico mouse; sembra piuttosto che su di esso abbia trovato ospitalità la famosa “mano invisibile” di Adam Smith, la quale, messa in discussione per questi tempi nel regno suo proprio dell’economia, si sia appunto accomodata fra i lidi meno critici della didattica. Una riflessione ci pare necessaria: non è quindi venuto il tempo, sulla scorta della lezione perenne dell’interlocutorio tafàno socratico, di chiederci se, fra tante tessiture 2.0, l’ingannatore genio maligno cartesiano non abbia preso a collocare bugs? Nella compulsione centrifuga della vita scolastica, non è forse venuto il tempo di domandarci se siamo ancora in grado, anche noi docenti, di parlare del sistema operativo della didattica? Se non stiamo perdendo l’esercizio dell’unità sintetica originaria della discenza e della docenza? Sempre utilizzando la metafora dello screenshot, un conto è procedere con l’empiria dei cosiddetti ‘smanettoni’ e un conto è raccogliersi in quell’unità operativa del software in cui si muove l’ingegnere informatico quando attende al dominio sul suo computer, un dominio che egli ha guadagnato in relazione innanzitutto grazie agli studi speculativi di Analisi Matematica.

Ecco allora un secondo interrogativo urgente che deve porsi chi voglia affrontare il 2.0 in maniera ingegneristica e non empirica (e preservarlo appunto da congeneri rischi di ‘cattive infinità’ verso il 3.0, 4.0 ecc.): siamo ancora in grado di frequentare tutto ciò che studiamo nella dimensione della speculazione, senza che la matematica si risolva nella ragioneria (con tutto il rispetto dovuto a questa disciplina), senza che la filosofia passi dall’orizzonte della parola, permeata di logos e anche di pathos, a quello della proiezione di slide intrise di anoressiche ed emaciate frecce e controfrecce, senza che la storia si risolva nella fruizione di film e di ricostruzioni in 3D, senza che il greco e il latino, ad esempio, vengano accantonati o, peggio, valorizzati solo nella misura in cui possono essere riesumati, magari con la respirazione bocca a bocca della traduzione di una delle loro versioni in inglese? Le loro anime sono già in Paradiso ed è lì che dobbiamo andarle a conoscere. 

Dovremmo rimanere saldi nel conoscere e praticare la ginnastica della grammatica linguistica del paradigma e della sintassi, la ginnastica filosofica della grammatica dell’essere, la ginnastica della grammatica cosmica nelle eleganti equazioni della fisica, la ginnastica della grammatica delle geometrie e del colore della storia dell’arte, la ginnastica della grammatica politica delle costituzioni che sottintendono le forme storiche della vita associata degli uomini; insomma, in generale, la ginnastica della grammatica concettuale di quello che è il software della paideia.

Non discorriamo per queste vie nel segno di un ritiro dell’anima bella al di sopra della fucina didattica con i suoi disordini, le sue difficoltà e le sue sperimentazioni. Ne discorriamo piuttosto perché, abitanti di questa caoticità, vorremmo continuare noi, con le mani sporche di gesso – la cipria della docenza - e le ugole corrose, a esserne i suoi demiurghi. Docenti e, nella prospettiva senza tempo della scuola 0.0 della maieutica socratica, discenti. Non perché tutto ciò sia un dovere rispetto alla tradizione o perché ad essa si debba il culto dell’inutile, ma perché la tradizione (cioè ciò che rimane nel tempo al di là di ogni tempo) ci insegna che l’uomo, per sua costituzione, non impara se non ciò che individua nelle sue ricerche come fonte di piacere.

Un piacere che, specificamente, nell’uomo non può essere quello che sembra sempre di più un asfittico aprire e chiudere la molteplicità dei file sul nostro screenshot didattico, bensì un piacere che può derivare in ultima istanza solo dal raccoglimento aerobico nella sinossi dell’unità speculativa, onde poi ridiscendere – certamente - verso la molteplicità. È questo il software che la scuola dell’Ellade ci ha insegnato essere proprio della mente dell’uomo. Ed è questo il software che dobbiamo innanzitutto alla nostra scuola e ai nostri studenti. In quanto studenti e in quanto futuri cittadini. La polis è certamente complessità, ma appunto complessità! Ovvero molteplicità nell’unità e unità nella molteplicità. Una molteplicità che i giovani ritroveranno il piacere di abitare e di ricostruire solo nel momento in cui torneranno - anche grazie a una consapevole “educazione 2.0” e a una ponderata declinazione temporale della paideia universale 0.0 - a cogliere i fili sistemici che possono tessere le trame della sua unità.

Ecco, forse, nel centrifugo vortice che sembra attanagliare tanto la paideia quanto la politeia, è venuto il momento di cliccare, con il nostro mouse recuperato da una saggia mano, per attivare un giro di Scandisk e magari adoperare l’Utilità di Deframmentazione. Ogni tanto gli informatici lo fanno. 

Giuseppe Cappello

 

Si ringrazia l'autore (saggista, poeta, musicista, docente di Storia e Filosofia nei Licei) per la costante partecipazione alle iniziative di Romainjazz. Si invitano i lettori a visitare il suo sito, ricco di articoli di grande interesse: www.giuseppecappello.it

 

 

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