miles davis,bitches brew:jazz e antropologia per un angelo dell'inferno

 

Miles Davis, Bitches Brew, Columbia 1970

Jazz e Antropologia per un Angelo dell’Inferno.

Molto al di là dei santoni del free jazz, esattamente al centro dell’avanguardia e della vulcanica evoluzione delle blue notes dopo la stagione del Cool e del Modale, Bitches Brew a 50 anni dalla pubblicazione: Storia della Musica, della Politica, dell’Antropologia, dell’Estetica.

Enunciato fin dal dualismo dell’immagine di copertina, il surrealismo psichedelico nel kitsch del volto nero, dell’abbraccio nero di fronte alle onde del mare nel quale la nera chioma tribale si evolve in nubi di tempesta che s’avvicina: una circolarità inevitabile, un collage reso ancor più dinamico dalle violente cromie di petali rossastri/giallastri nell’angolo meno colpito dall’attenzione visiva, in basso, di lato, a sinistra. Una tempesta inevitabile come quella che l’ensemble meticolosamente scelto da Miles Davis avrebbe suscitato in ogni luogo si fosse dimensionata una ricerca di nuove vie per il jazz.     

Qualcuno disse che forse Miles Davis voleva far parlare di sé anche presso quel pubblico non esperto di jazz che per smania di nuovo (e di nuovo ce n’era moltissimo in quegli anni) s’era dato, in virtù di un ego lesionato dal mosaico disgregato della società americana, alla cultura beat, alle potenti declamazioni rock di una stagione irripetibile, alle pulsazioni fusion di un pensiero tutto black funk.

Ipotizziamo pure questa scelta, che presto intuiamo non poter esser tra le prime per la realizzazione di un album mostruoso di implacabile libertà personale, libertà di essere jazzista senza punti di riferimento se non i propri, specie in quelle singolari improvvisazioni che avrebbero reso unico ed inimitabile lo stile di un angelo dell’inferno (o di un demone del paradiso, fa lo stesso).

Così parlò Davis: «...più o meno in quel periodo cominciai a capire che i musicisti rock non sapevano niente della musica. Non la studiavano, non potevano studiare stili differenti, e di leggerla non se ne parlava nemmeno. Ma erano popolari e vendevano un mucchio di dischi perché davano al pubblico un certo sound e quello che voleva ascoltare. Così cominciai a pensare che se loro potevano raggiungere tutta questa gente e vendere tutti quei dischi senza nemmeno sapere che cosa stessero facendo, bene, potevo farlo anch'io e peraltro meglio.» (Miles Davis nella sua autobiografia, come riportato da Luca Cerchiari in “Miles Davis. Dal bebop all'hip-hop”, Feltrinelli 2013, pagg. 192-193). Il confronto, comunque, esisteva.

A complicare la corretta interpretazione della costruzione estetica dell’album, il fatto che la prima sessione per l’incisione avvenne qualche giorno dopo la conclusione del Festival di Woodstock, evento che, come Davis ben intuì, aveva fatto conoscere a tutto il mondo la nuova realtà del pensiero alternativo psichedelico, con annessi e connessi di segno politico e sociale.

Diciamone un’altra: il futuro presidente della Columbia Records, label con la quale Davis aveva firmato un contratto a lunga scadenza, lo aveva convinto a suonare in spazi aperti che potessero contenere migliaia di spettatori e non più nei piccoli ambienti dei jazz club. L’intenzione era chiara, giungere al grande pubblico, a qualunque costo, anche a quello di presentarsi prima o dopo musicisti che nulla avevano a che fare col jazz, così come avvenne il 7 marzo 1970 con la Steve Miller Band e con i Crazy Horse di Neil  Young al Fillmore East di New York (“Live at Fillmore East”, doppio lp di pura dinamite sonora).

Che Miles avesse un personale sciamanico misticismo del suono lo sappiamo tutti, che fosse attratto dalle nuove tendenze elettroniche forse, ad appena una decina d’anni dal capolavoro cool “Kind Of Blue”, non in molti se l’aspettavano: ma uno sciamano è uno sciamano anche per questo, imprevedibile, impuntato sulle proprie convinzioni, uno che non dà retta a nessuno, pronto a sfidare chiunque pur di scagliare in prima linea la propria noia per il mainstream, fidando ciecamente nel proprio enorme narcisismo, nella propria capacità d’inventare senza regole (del resto, quale artista di rilievo nel corso della storia della musica, moderna e non solo, non l’ha fatto?).

Miles se ne intendeva parecchio di musica, di qualunque musica, conosceva tanto ed ascoltava moltissimo: ascoltare, questo il modo giusto per innovare, per arrivare dritto al centro emozionale del pubblico e solo del pubblico. In fondo della critica gliene importava poco. Lo sapeva bene il produttore discografico Teo Macero che si occupò della sistemazione dei brani in quanto a mixing ed editing: lavoro eccezionale, non c’ è che dire.  Senza di lui l’album non sarebbe mai stato quel Grammy Award nel 1971 come miglior album jazz strumentale e nel 1999 Grammy Hall of Fame Award.

La cupa magia dei soli di Miles indicano disamore, tormenti, distruttività, note lunghe e sospese fra i tratteggi di una ritmica esplosiva e continuamente variante, punti esclamativi pronti ad esplodere assieme alle baraonde per chitarra di John McLaughlin, alle compensazioni cromatiche di Chick Corea alle tastiere e di Larry Young al piano, ai bruni profondi commenti del clarinetto basso di  Bennie Maupin, al prodigo incedere del sax tenore di Wayne Shorter, alle poderose linee di basso elettrico di Harvey Brooks e a quelle inventive e contrabbassistiche di Dave Holland, al fiuto da segugio di Jack DeJohnette per ogni spazio avesse da creativizzare il drumming, in aperta combutta con il forte afro delle congas di Don Alias e le diavolerie percussionistiche di Juma Santos. 

Il periodo elettrico di Davis era iniziato già da qualche tempo, e tra le incomprensibili accuse di occhieggiature commerciali rivolte dai soliti banali radical chic, quando poi a ben ascoltare Bitches Brew si può facilmente intuire come questa musica sia una delle meno acquiescenti al gusto popolare, men che mai incline al gusto dettato dai mass media, un melting violento e urticante, bizzoso e lontanissimo dalle rassicuranti armonie e dalle composte posture american style: indubbiamente un Sound difficile per quei tempi, col quale andò ad esplorare un continente ancora disabitato e visionario, poi riscoperto da anomali temerari come Bill Laswell o Vernon Reid, che comunque non hanno mai raggiunto quelle vette vorticose poi canonizzate dalla futura Critica, e a furor di popolo. I dialoghi multipli con i colori abrasivi di Wayne Shorter (qui all’apice della sua inventiva) e con le fluide risonanze delle tastiere di Chick Corea rimarranno un esempio di potenza al limite dell’iconoclastia, senza che questo faccia smarrire né entusiasmo d’ascolto né attenta osservazione per le prodigiose abilità tecniche esibite da un “trio solistico” di fragoroso e anarchico splendore.

Omettiamo dettagli tecnici e lasciamo a chi legge i 20 minuti incendiari dell’incipit Pharaoh's Dance, i 27 ipnotici di Bitches Brew, i 17 dell’ispanismo tanto amato da Davis nelle forme libere tra funky e notturno del suono d’assieme di Spanish Key, gli appena 4:22 del magnifico tappeto sonoro steso per le improvvisazioni di un ispiratissimo John McLaughlin acido nei magneti e prossimo agli entusiasmi elettrici della Mahavishnu Orchestra, i 14 della jam session tornita di blues di Miles Runs the Voodoo Down (eh sì, Jimi Hendrix chiamato alla memoria per la devastante bellezza del suo Voodoo Child (Slight Return) pubblicato l'anno precedente nell'album “Electric Ladyland”), i quasi 11 del conclusivo Sanctuary, ballad di Shorter accesa dal fraseggio lungo, lirico e lunare dell’Angelo dell’Inferno (o Demone del Paradiso).

Quanti riferimenti non jazz nel contempo dell’incisione? Jimi Hendrix (col quale Davis avrebbe voluto suonare), Sly & The Family Stone, Doors, Pink Floyd, Frank Zappa, Soft Machine e poi Brian Eno, Santana, Robert Wyatt, per poi incontrare i Radiohead e soprattutto i “cattivi” della New Wave inglese Scritti Politti e Public Image Ltd di John Lydon, con i quali peraltro fu brevemente in studio.

In ogni caso, a proposito degli innamoramenti rock postulati da alcuni critici, Davis ebbe a dire: “Il rock è roba da bianchi. Io non suono rock, io suono black”. Affermazione che in quegli anni aveva un’importante valenza politica, pronunciata da chi aveva riportato la bandiera dell'avanguardia nuovamente all’interno della musica afro americana.

Personalmente sono dell’opinione che Bitches Brew  venne annunciato da “In a Silent Way” (Columbia, 1969), disco molto discusso e all’epoca preso in scarsa considerazione, in realtà una performance destinata a rivoluzionare la storia della musica jazz in una direzione ben diversa rispetto a quella del free: elettrificata quasi del tutto la strumentazione e assunti i nuovi motivi strutturali del grande ispiratore Joe Zawinul (pronto alle future immaginifiche figurazioni dei Weather Report), Davis ideò l’album in due sole lunghe composizioni, proposte tra loro in continuità in un unico flusso musicale. Scelta tecnica e artistica che ritroviamo del tutto perfezionata sia in Bitches Brew che nella maggior parte dei concerti da qui sino alla scomparsa terrena di Miles (per chi come me c’era, allo Stadio Curi di Perugia nel 1984, 1985, 1987, 1989 e allo Stadio Olimpico di Roma il 23 luglio 1991, support band quella di un Pat Metheny, astro nascente di blue notes tutte nuove e accattivanti).   

L’autorevole “The Penguin Guide to Jazz” dà a Bitches Brew una valutazione di quattro stelle su quattro, descrivendolo come "uno dei momenti di maggiore creatività dell'ultimo mezzo secolo, in qualsiasi espressione artistica." Per la rivista “Rolling Stone” Bitches Brew occupa la posizione numero 94 nella lista dei 500 migliori dischi di sempre. Punto di svolta epocale per Arrigo Polillo (“La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana”, Mondadori, 1975, pag. 724.) Paul Tingen (“Miles Beyond. The Electric Explorations of Miles Davis, 1967-1991”, Billboard Books, New York, 2001, pag. 62.) Eric Nisenson (“Round about Midnight. Ein Portrait von Miles Davis”. Vienna, Hannibal, 1985, pag. 167) Federico Scoppio (“Miles Davis”, Legends Jazz 18, Editori Riuniti, pag. 22). Per molte testate ed enciclopedie è uno degli album più venduti degli ultimi 50 anni, il secondo dell’immensa discografia di Davis dopo “Kind Of Blue”. Nelle piattaforme digitali ancora oggi è uno dei dischi più ascoltati, con download a 6 zeri. La front cover è una delle più commentate, citata ad esempio della Nuova Arte degli anni 70.

Anche il titolo Bitches Brew suscita curiosità ed è in linea con l’atmosfera tutta particolare della performance, e non sembra inutile parlarne: è forse un gioco di parole che allude ad un “calderone di streghe” (volendo considerare il sostantivo “bitches” come variante fonetica di “witches”; qualora non lo si considerasse tale ricordiamo che “bitch” è un termine volgare corrispondente a “puttana” o “stronza”) o qualcosa come "guai in vista" ("bitch", fra l'altro, vuol dire guaio, situazione difficile; "to brew", preparare, escogitare) o “pozione magica”. E’ anche vero che un altro significato di “bitching”, è "qualcosa di pregevole”. In questo senso Miles avrebbe voluto quindi dire "questa musica è roba buona".

Per quanto riguarda “bitches”, ricorda Carlos Santana, nelle note del box Columbia “The Complete B.B. Sessions”, che all’epoca Miles "sembrava sempre in compagnia di un gruppo di donne che certi di noi avevano ribattezzato “the cosmic ladies”. C'era sua moglie Betty, c'erano Collette, Monica e la ragazza di Jimi Hendrix, Devon. E tutte queste donne, a poco a poco, riuscirono a cambiare Miles, il suo modo di vestire, i luoghi che frequentava, la musica che ascoltava. E' in gran parte a causa della loro influenza che Miles ha cominciato a prendere sul serio  James Brown e Sly Stone, oltre che a frequentare Hendrix. [...] Ho sempre pensato che Bitches Brew fosse un omaggio che Miles aveva voluto rendere - alla sua maniera - a queste donne che gli avevano fatto vedere un mondo del tutto nuovo e che l'avevano incoraggiato a compiere l'ennesimo grande passo". Un passo deflagrante che non possiamo escludere in parte dettato anche dall’uso costante di cocaina, anfetamine e acidi, così come dalle nuove prospettive surrealiste della beat generation (Allen Ginsberg, “Jukebox all’idrogeno”, William Burroughs, “Il pasto nudo”, Jack Kerouac, “Sulla strada” e “Satori a Parigi”, Gregory Corso, il poemetto “Bomb”), dal ribellismo giovanile di Berkeley e dall’entusiasmo per la formula di Herbert Marcuse “Immaginazione al Potere”, fulcro del Greenwich Village, downtown del distretto  di Manhattan che ospitò tanti creativi del jazz nel notissimo club “Village Vanguard” in cui sono stati registrati circa 100 dischi (ad iniziare da Sonny Rollins nel 1957, Bill Evans e John Coltrane nel 1961).   

Al di là di analisi filologiche è comunque chiaro che perfino il titolo lascia qualcosa di sostanzialmente inconosciuto che richiederebbe l’intervento di Miles stesso per esser decrittato: ed è giusto così, che certe opere d’arte risultino sempre “mancine” all’interpretazione, misteriosamente invisibili nella propria costruzione e realizzazione.

A mio avviso le classifiche contano molto poco e non sempre contano le analisi strutturaliste dei titoli degli album, dal momento che spesso intervengono divertimenti linguistici, dovuti alla misteriosa casualità dell’inconscio e a rimandi psicologici pressoché indecifrabili, quidquid ne dica il saccente vomere di buona parte dell’onnisciente psichiatria contemporanea.

Sempre meglio lasciarci andare all’ascolto dell’album: legami logici esclusi, non si può non riconoscere che Miles Davis con Bitches Brew abbia davvero sfiorato il capolavoro. O magari l’abbia raggiunto, ma questi sono fatti personali di chi ascolta.

Fabrizio Ciccarelli

Lato 1

Pharaoh's Dance (Joe Zawinul) – 20:00

Lato 2

Bitches Brew – 26:59

Lato 3

Spanish Key – 17:29

John McLaughlin – 4:26

Lato 4

Miles Runs the Voodoo Down – 14:04

Sanctuary (Shorter)) – 10:52

Registrazione e Formazione

Bitches Brew

John McLaughlin

Sanctuary (Shorter)

Registrazione Columbia Studio B, New York City 19 agosto, 1969

Miles Davis - tromba

Wayne Shorter - sax soprano

Bennie Maupin - clarinetto basso

Joe Zawinul - piano elettrico (canale sinistro)

Chick Corea - piano elettrico (canale destro)

John McLaughlin - chitarra elettrica

Dave Holland - contrabbasso

Harvey Brooks - basso elettrico

Lenny White - Batteria - Sinistra

Jack DeJohnette - Batteria - Destra

Don Alias - congas

Juma Santos (accreditato come "Jim Riley") - Shaker, congas

In John McLaughlin senza Davis e Brooks

In Sanctuary senza Maupin, Brooks e White

Miles Runs the Voodoo Down

Registrazione Columbia Studio B, New York City 20 agosto, 1969

Miles Davis - tromba

Wayne Shorter - sax soprano

Bennie Maupin - clarinetto basso

Joe Zawinul - piano elettrico - Sinistro

Chick Corea - piano elettrico - Destro

John McLaughlin - chitarra elettrica

Dave Holland - basso elettrico

Harvey Brooks - basso elettrico

Don Alias - Batteria - Sinistra

Jack DeJohnette - Batteria - Destra

Juma Santos (accreditato come "Jim Riley") - congas

Spanish Key

Pharaoh's Dance (Joe Zawinul)

Registrazione Columbia Studio B, New York City 21 agosto, 1969

Miles Davis - tromba

Wayne Shorter - sax soprano

Bennie Maupin - clarinetto basso

Joe Zawinul - piano elettrico - Sinistro

Larry Young - piano elettrico - Centro

Chick Corea - piano elettrico - Destro

John McLaughlin - chitarra elettrica

Dave Holland - Basso

Harvey Brooks - basso elettrico

Lenny White - Batteria - Sinistra

Jack DeJohnette - Batteria - Destra

Don Alias - Congas

Juma Santos (accreditato come "Jim Riley") – Shaker

Qui l'intero album: https://www.youtube.com/watch?v=d8QzACfFGlw&list=OLAK5uy_nfcvwjd05Bcys083NYGivRLEDOjGHYums 

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