il fuoco di melpomene.memoria di un genoma musicale. di giuseppe cappello

Il fuoco di Melpomene

Memoria di un genoma musicale 

I miei rapporti con la musica risalgono a quando, sulla soglia dell’ingresso alle scuole elementari, i miei genitori decisero di avviarmi allo studio del pianoforte. In una prospettiva quasi ancora ottocentesca, impensabile per i bambini di adesso, decisero loro, e loro pure decisero lo strumento. Ricordo di un vago assenso dato in una sera d’estate degli anni Settanta mentre giocavo con i miei coetanei nella piazzetta che mi ha visto crescere. Non avevo però minimamente la consapevolezza di ciò a cui stavo andando incontro. Una maledetta benedizione o, meglio, una benedetta maledizione. 

 

Con l’inizio della scuola, infatti, iniziarono anche le lezioni di pianoforte; e con i compiti della scuola iniziarono i compiti dello studio della musica. Oggi ai bambini, quando va bene, si chiede di dedicare dieci minuti allo strumento e, quando lo si ottiene in maniera strutturale, si pensa a un gran risultato. Come in fondo probabilmente è. Sennonché una volta le cose andavano diversamente. Mi ricordo che fui catapultato fra lo studio delle prime suonate di Chopin, del famoso libro degli esercizi di Hanon e del solfeggio sul manuale del Bona con l’imperativo di esercitarmi un’ora al giorno. Non fu facile. Più si andava avanti e più il peso di una paideia al netto di molti scrupoli montessoriani si faceva sentire. L’orologio era sul pianoforte e alla canonica ora pomeridiana di esercizi (dopo i compiti della scuola e, dalle cinque alle sei, prima di poter uscire) non erano concesse deroghe. Qualche volta, quando mia madre, che mi seguiva nello studio con una sedia lì dove finivano le ottave della tastiera, si doveva allontanare, spostavo l’orologio in avanti di dieci minuti. Sennonché credo che quella palestra, fra le armonie, il ritmo e le melodie dei più grandi musicisti classici, abbia giovato alla mia formazione musicale, e più in generale dello spirito, in maniera determinante. Quale sia l’importanza della musica nella formazione dello spirito è cosa nota e ben espressa nelle pagine della Repubblica di Platone lì dove il filosofo fa dire a Socrate: «L'educazione decisiva, Glaucone, è quella musicale, perché il ritmo e l'armonia penetrano fino in fondo all'animo, e lo toccano nel modo più vigoroso infondendogli eleganza, e rendono bello chi abbia ricevuto un'educazione corretta, mentre accade il contrario all'incolto. Chi possiede una sufficiente educazione musicale può accorgersi con grande acutezza di ciò che è brutto o imperfetto nelle opere d'arte o in natura, e se ne dispiace a buon diritto, mentre sa approvare e accogliere con gioia nel suo animo ciò che è bello, e nutrirsene e diventare un uomo onesto». 

Ma già quando proprio gli studi della scuola si profilarono più impegnativi, con l’inizio delle medie, i miei mi lasciarono decidere se portare avanti anche lo studio del pianoforte o meno. Ricordo anche qui bene di avere vissuto quel momento come una liberazione. Lasciai. Ma il seme di ciò grazie a cui di fronte al  filosofo, come sostiene Schelling, si apre «il santuario, dove in eterna e originaria unione arde come in una fiamma quello che nella natura e nella storia è separato»,  era instillato. Latente ma presente. 

In un’estate in cui andai, ormai adolescente, a passare qualche giorno dai miei cugini a Padova, la fiamma era destinata a riaccendersi. In un angolo della camera di mio cugino vi era una chitarra acustica. Non chiesi nessun permesso e aprii la lampo della custodia. Non ricordo bene se ci fossero degli spartiti. Ricordo solo che cominciai a muovere le mie mani sulla nuova tastiera. Quella della chitarra appunto. Probabilmente in effetti dovevano esserci degli spartiti perché passai la mia settimana padovana a imparare gli accordi di una canzone dei Beatles. “Rocky Racoon” per essere precisi. Era un fatto di misure con il nuovo strumento, di conflitto di falangi e polpastrelli con il crudo legno che ogni chitarrista alle prime armi conosce bene. Sennonché dentro quel legno c’era già scolpito il seme della Musa. Molti anni avevo passato fra Chopin e Mozart, Bach e Beethoven. Fra la materia che opponeva le sue resistenze tutto stava per riaffiorare e rifiorire. E piano piano cominciai a  muovere le mani anche sulla tastiera della chitarra. Cominciai a macinare accordi nel frantoio dei Beatles. E quando tornai a Roma mi procurai una chitarra. Mi accompagnò subito, dopo i giorni del luglio padovano, in quelli dell’agosto di una casa sul mare a Taormina. Stavolta ero io a pensare a settembre nei termini della ricerca di un maestro. 

Con gli inizi del quarto o del quinto ginnasio individuai una delle scuole che a Roma, all’inizio degli anni Ottanta, avevano cominciato a portare i corsi di jazz nella Capitale. Naturalmente i miei genitori, che vedevano il seme gettato cominciare a venire alla luce e a schiudere quelle prime foglioline che forse non si aspettavano più nemmeno loro, sostennero la mia causa. Prima mi iscrissi ad una scuola abbastanza nota. Poi in quella che era per eccellenza, negli anni Ottanta, la scuola dove a Roma si insegnava e si imparava il jazz; un jazz mescolato con il rock, nella via che mi indicò il mio maestro di allora: Umberto Fiorentino, un maestro la cui virtù chitarristica ricorderò sempre come direttamente proporzionale alla sua umiltà. Un Maestro! Era un duro lavoro quello a cui lui metteva di fronte i suoi allievi. Il duro lavoro che lui aveva percorso per giungere all’eccellenza della chitarra jazz; jazz rock cominciava a dirsi di quei tempi. E in effetti di jazz rock si trattava. L’improvvisazione a partire dalle scale esatoniche minori fino all’utilizzo dell’intero registro delle dodici note su molti degli standard dei maestri del jazz. Il lavoro fu duro e io non lo persegui fino in fondo. Un giorno mi accorsi (lo ricordo, in un angolo della mia stanza, come fosse ora) che padroneggiavo quasi per una immediata magia l’improvvisazione su tutta la tastiera della chitarra. Avrei dovuto continuare a studiare per le continue modulazioni che richiedono gli standard del jazz ma a me interessava il rock. 

Grazie a un compagno del liceo avevo infatti cominciato a scoprire, oltre ai Beatles, i Pink Floyd e i  Police (la mia trinità musicale); nella ricerca vennero anche i Rush e gli Emerson Lake & Palmer, i Queen e i Jethro Tull, Peter Gabriel e David Bowie; e, fra gli italiani, Pino Daniele ed Eugenio Finardi. Ed è per questa strada che, macinando l’ascolto insieme di non so quanti migliaia di chilometri dei nastri delle antiche cassette, avvenne il corto circuito fra gli antichi studi del pianoforte, di quelli nuovi della chitarra jazz e dell’improvvisazione continua sui grandi del rock. 

Passavamo intere serate, parcheggiati con la macchina sempre di fronte alla stessa fontanella, a sentire e risentire i passi della nostra musica. Su tutto i bootleg dei Police, dentro cui c’è forse quella che è la canzone che tocca più nel fondo l’intimo del mio spirito. Si tratta di Bring on the night che infatti ha ispirato gli unici versi che io abbia dedicato specificamente proprio a una canzone: 

La notte indigena dell’intimità

La chitarra viene su da un anonimato inquieto

L’anonimato del latte e delle nebbie

Del ferro e  del carbone

Di un intimità che sa del suo valore pubblico

E il basso entra e spinge

Nel ritmo del piccone dei minatori

Spinge nel ritmo del piccone dei minatori

In levare la siderurgia delle percussioni

La pulsazione della grancassa risoluzione e domanda

Sui quarti pari incede

Nel passo dispari di speranza e disperazione

Spera e dispera l’intimità che sa del suo valore pubblico

Che sa che il mondo potrebbe non raccogliere

Il canto

Ha dentro una luce splendore e conflagrazione

Splendore nel mondo

Conflagrazione in una sola anima

La notte scende con la sua oscura coltre

Abito di un istante di fatalità

Nella notte indigena dell’intimo il sonno rapisce gli hertz del sogno 

Riprendendo proprio dalla «siderurgia delle percussioni», impazzivamo dentro il nervosismo irriducibile della batteria di Stewart Copeland. Potevamo passare ore a mandare avanti e indietro quell’attimo di nastro su cui la grancassa chiudeva la rullata iniziata sui tom; il charleston si apriva e si chiudeva sotto le più eleganti e raffinate carezze delle bacchette; il rullante tirava i suoi colpi e le mani sfuggivano alla mani stesse di Stewart per un’incursione sugli octoban. Pensavamo a quei movimenti nel segno delle fibrillazioni del Morbo di Parkinson. E da allora, più in generale, cominciammo a dividere i musicisti in quelli che avevano il ‘morbo’ e quelli che non lo avevano. Si trattasse di batteristi, chitarristi, bassisti e così via. Un’ottima tecnica non è sempre garanzia della musica. Per questa ci vuole il morbo. Quello di Stewart, di Jaco Pastorius, di Keith Emerson e di David Gilmour; ma anche di chi, con una tecnica meno avanzata, tirava fuori dal suo strumento la magia della musica: lo stesso Sting e Paul McCartney con il loro basso o, per continuare nell’esempio, Harrison con la chitarra. Per le voci, su tutto, si stagliavano quelle soliste e in coro dei Beatles (passammo un intera sera ad ascoltare Girl ruotando tutto il bilancio sul canale destro dello stereo dove si sentiva il canto di Lennon al netto di tutti gli strumenti del gruppo);  l’usignolo di Sting, il teatro di Roger Waters, per cui più di ogni altro valgono le parole di Hegel secondo cui «nel canto l’anima sgorga dalla propria carne»; la mediterranea mescolanza di Pino Daniele. Naturalmente la nostra distinzione manichea fra chi aveva il morbo e chi non lo aveva valeva per l’esecuzione e a maggior ragione per la composizione. Su quale fosse la musica e quale no non c’erano margini di discussione. Eravamo di sinistra ma quanto alla musica, dicevamo appunto, «vige il nazismo musicale». Anche sui cori in studio dei Police, ce la ridevamo pensando al nazismo di Sting. Li chiamavamo appunto i ‘cori nazisti’: nessuno spazio a Stewart e Andy ma solo voci sovrapposte e controcanti di Sting! E fantasticavamo sulle leggende dei rapporti fra Stewart e Sting. Con le discussioni musicali che finivano in rissa quando Andy non aveva dato seguito a tutta la sua capacità di mediazione.   

In quel periodo, poi, proprio a proposito di composizione, Sting che, già idolo musicale, era destinato a divenire per me, attraverso la sua musica (nelle note e nelle liriche), un vero e proprio riferimento esistenziale, compiva la sua virata dal rock e dal reggae dei Police alla sua produzione solista proprio fa il rock e il jazz. Non so veramente in che termini possa io contare le ore che ho passato a improvvisare sulla musica di Sting da quando nel 1985 è uscito The Dream of the Blue Turtles fino a oggi. Avevo sedici anni e ne sono passati altri sedici più sedici! Su e giù per la tastiera della Stratocaster attraverso i cromatismi del jazz; e non solo per le vie di ciò che più era intonato con il jazz, la musica di Sting appunto e quella di Pino Daniele; su e giù per la tastiera anche dentro le armonie dei Pink Floyd. Me ne sono testimoni coloro che abitavano per l’intero lungo viale dove io abitavo con i miei genitori: il rock vuole il volume e dal nono piano il suono si spandeva in maniera molto estesa. 

Poi spesso, per un periodo, approfittando di un locale di cui avevo le chiavi per altri motivi e in cui andavamo furtivamente, suonavamo in un duo con il mio amico del liceo. Non aveva studiato la musica ma sapeva molto bene dove andare per le vie delle quattro corde del basso (non aveva studiato ma nella casa, fra il nonno che lo aveva avviato ai rudimenti essenziali della chitarra classica e il padre che era un amante della lirica, quella era la flagranza che si respirava). Interminabili jam session (così le chiameremmo oggi) che iniziavano con il sabato sera alle nove e, passando fra tutte le armonie in un flusso musicale improvvisato e  senza soluzioni di continuità nella musica che adoravamo, potevano arrivare tranquillamente fino all’una di notte. Questo duo, in fondo, sebbene poi abbia avuto altre esperienze in tal senso, è stato l’unico vero gruppo in cui ho suonato; e di cui vado ancora oggi profondamente fiero. Fino cercare di eternare quei momenti nei versi della poesia: 

Il fuoco di Melpomene 

Le vele del sabato sera su per il cielo

Imbracciavamo i mitra del rock

Con i caricatori a sei e quattro corde

Giù per i campi dell’orzo e del papavero

In quattro quarti le raffiche incrociate

Sul velo di Maya il fuoco di Melpomene

Gli squarci e l’irruzione

Intorno la magia

Avvolti nelle melodie dell’Uno originario

Credo che se allora la cosa avesse trovato una dimensione più strutturata forse la mia vita avrebbe potuto inclinare verso la musica anche in uno statuto professionale. Anche perché avevo cominciato a comporre.  Il cortocircuito della musica con le muse femminili che si incontrano a venti anni è in fondo l’ostetrico di ogni grande esperienza musicale che è venuta alla luce nel rock. Per anni, quanto ho scritto sul pentagramma è rimasto in un cassetto in favore della poesia (forse perché nella poesia si è strutturata quella sintesi in cui l’immaginazione della visione si esprime attraverso la parola ovvero nella la sintesi di quanto di più intimo ho appreso nella sensibilità da mio padre, pittore e storico dell’arte, e da mia madre, insegnante di italiano, latino e greco); anche se, grazie a un sintetizzatore che venne con la mia laurea, tutto ha trovato il suo luogo di realizzazione. Ancora una volta latente in una strana attesa messianica del kairòs; ad aspettare che ciò che avevo di altamente sacro si manifestasse e trovasse il momento veramente sacro per manifestarsi. 

Intanto, comunque, sul sintetizzatore ho scritto per anni anche le parti di tutti gli strumenti del pezzi che più hanno accompagnato la mia esistenza; ho ricostruito con la minuzia filologica del letterato del Quattrocento tutti i codici di quello che lungo gli anni si è costituito come il mio genoma musicale; i Police, rigorosamente dal vivo, e i Pink Floyd, rigorosamente in studio; Sting e Roger Waters. E su queste basi musicali passeggio ancora oggi di sera e soprattutto quando viene l’estate con il mio bastone ormai trentennale: il manico della mia Stratocaster! 

Quanto a risolvermi a tirare fuori quanto ho composto avrei forse aspettato ancora se non fosse intervenuta la risolutezza giovanile; così fra i banchi del liceo, ora che da studente sono diventato un insegnante, gli incontri magici non hanno cessato di avvenire sotto il segno della stella della musica. Fra una chiacchiera e un’altra intorno alla cattedra, a quarantacinque anni, mi sono ritrovato a scoprire le carte con un mio studente, appunto, appassionato di registrazione e missaggio. Lui appunto risoluto: «Prof, ma tiriamoli fuori questi pezzi!». Li abbiamo tirati fuori ed è nato un CD di otto tracce che ha preso il nome di Days of Infinity. E’ un disco in cui c’è scritta tutta la mia storia d’amore con la musica; una grande storia d’amore senza cui non sarei quello che sono anche come insegnante di filosofia. In fondo ogni volta che entro in classe ci sono tre cose che sorreggono, a prescindere dal loro contenuto, tutte le mie lezioni: l’amore per la Grecia classica, la retina teoretica che ho ricevuto dallo studio della Scienza della logica di Hegel e quell’adrenalina irriducibile a tenere il palco di cui mi ha fatto dono l’amore per la musica. In fondo la musica ha risolto, nella mia vita, in uno statuto professionale; e, risolvendovi, insieme a qualcosa di originario e congenere, ha fatto della mia professione piuttosto una vocazione che ogni giorno si rinnova nel suono della tonica della libertà. 

La tonica della libertà 

La bacchetta libera l’eccellenza dei violini

Sostiene i flebili fiati dei clarini

Rincula alla sciabolata della grancassa che sorprende

Sulla briglia ha l’hertz mediano delle viole

Si abbassa quindi

Perché la sinfonia cammini nella luce dell’eclissi maieutica

Ma il cielo di note si oscura a volte nella notte

Si scompongono le corde, i legni e le pelli

La polifonia scivola sull’uscio del disordine

Rientra allora la bacchetta fra le righe

Per levarsi su fino a un do di petto

Il raid del sole a mezzogiorno intesse la pausa in semibreve

Nel silenzio ognuno ritrova la sua chiave

E si riadagia lentamente nel suo ordito la tela dei suoni

Infine alla tonica della libertà 

Non posso chiudere questa memoria senza esprimere la mia gratitudine infinita ai miei genitori che all’infinito mi hanno iniziato; dopo avermi infatti donato la vita la hanno anche iniziata a ciò che fa dell’uomo un animale metafisico e eterna i suoi giorni già nel segno dell’immanenza. Io, poi, fra l’insegnamento e la musica, la filosofia e la poesia, ho trovato la mia strada. Yò!

Giuseppe Cappello

NDR:

Nella mitologia greca, Melpomene (in greco Μελπομένη) era la musa della tragedia, figlia di Zeus e di Mnemosine (cioè della potenza e della memoria). Ci è nota anche per il suo rapporto con Dioniso. Il suo nome, infatti, è derivato dal greco μελπομαι, che significa "festeggiare con danze e canti".

Viene spesso rappresentata con una maschera tragica e calzante i coturni, tradizionali sandali tragici; oltre a ciò reca spesso con sé un coltello o un bastone, mentre in capo può portare una corona in cipresso. Il suo sguardo è spesso severo e grave: con ciò, la musa indica che la tragedia è un'arte difficile, potente, che richiede grande ingegno ma soprattutto molta fantasia. Alcune tradizioni vogliono che dall'unione di Melpomene con Acheloo, dio fluviale, figlio di Oceano e Teti, siano nate le Sirene, esseri mitologici con testa di donna e corpo di pesce, che con il loro canto attirano i marinai per poi condurli a una morte certa.

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