chet baker, arrivederci-le parole e la musica

Le Parole della Musica

Chet Baker: Arrivederci

Arrivederci

dammi la mano e sorridimi

senza piangere…

Anch’io come tanti negli anni 70 sentivo di Chet Baker che girava fra i locali di Roma, quelle cantine  anguste dei palazzi storici di Lungotevere o quei piani bassi vicini a Piazza Navona e dintorni.

 

Anch’io come tanti ascoltavo i racconti dei musicisti romani che avevano suonato con lui, e tutti dicevano del calore straordinario che Chet emanava, alticcio per i tanti whiskyes bevuti, perduto per quella Roba che lo aveva preso così tanto da averlo imprigionato in una vita alla ricerca di sballi senza pause, senza mai dimenticare ciò che per lui era più bello e vitale, il Jazz.

Il Jazz, la sua maledizione benedetta, il Jazz dei sentimenti, il Jazz Storia dopo Storia, il Jazz del suo Jazz, fuori dalle ottave policrome di Charlie Parker e Miles Davis, il Jazz al di fuori dei suoi racconti su Bill Evans e Charlie Mingus e Thelonious Monk, il suo Jazz, solo il suo Jazz melodico e lunare, crepuscolare e così intenso da spingere alla commozione chiunque lo ascoltasse dal vivo, soprattutto in quei rifugi sotterranei nei quali, Chet in primis, si sorrideva mangiando assieme spaghetti e mozzarella, e si beveva Bianco dei Castelli o, per i beati figli della buona borghesia romana, Cuba Libre o Campari & Gin.

Prima di suonare Chet stava lì al bancone, sguardo semplice e poco attento, smanettava la sua tromba e parlava della Cappella Sistina o dell’Arco di Costantino che tanto gli piacevano; commentava nel suo slang impastato la voce strabiliante di Billie Holiday, i concerti con Charlie Parker nella West Coast, i suoi disaccordi con Gerry Mulligan  e Stan Getz meditati e rimeditati nei sedici mesi di carcere trascorsi a Lucca, beccato in Autogrill con qualche grammo di Roba.

Non era raro incontrarlo per Roma: Chet era di casa in Italia,  incise con Franco Cerri, Gianni Basso, Renato Sellani, Glauco Masetti, Luca Flores, collaborò con Piero Umiliani per la colonna sonora di quel capolavoro della commedia all’italiana che fu ”L’audace colpo dei soliti ignoti” di Nanni Loy. Dal 1975 ai primi anni 80 abitò a Roma e qualcuno racconta che purtroppo lo si incontrava spesso a Monte Mario o Via del Corso, sui marciapiedi a suonare per racimolare qualche Lira per placare la sua scimmia sulla schiena.

Un mio amico mi disse che, all’angolo della Sede del Partito Socialista in Via del Corso, gli aveva allungato una banconota ed un pacchetto di Camel senza Filtro, e lui: “grazie mille”. E poi ancora a cercare un Buco. Chet era irriconoscibile; in realtà non molti in Italia conoscevano il suo volto, ma chi sapeva chi fosse quello strano hipster non poteva non stupirsi per il contrasto fra i suoi modi gentili e la miseria dei suoi stracci. Chet lì, incredibile. Un genio mendicante, e nessuno che se ne occupasse. “Ha scelto la sua vita,” diceva pure qualcuno, come se l’Eroina fosse una scelta.      

Ma cosa c’era di tanto originale nel suo Suono strumentale e nella sua Voce? Sembra che nel 1966 in una rissa qualcuno gli avesse spaccato una bottiglia sui denti anteriori- qualcuno racconta che fu uno spacciatore non pagato, oppure che fu l’Eroina a distruggere lo smalto di incisivi e canini – per cui non riusciva più a suonare per il dolore, finché Dizzy Gillespie lo riconobbe come inserviente di un Distributore di Benzina in una viuzza periferica degli States e gli diede i soldi per farsi sistemare da un dentista.

Però il punto non è questo: Chet suonava diverso anche prima, e così sarà anche dopo nelle incisioni con Jim Hall ed Enrico Pieranunzi, nello splendido e commovente Solo in “Shipbuilding” di Elvis Costello nel 1982.

Sei anni dopo sarebbe volato via cadendo da una finestra del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam, probabilmente strafatto di Eroina e Cocaina.

“Arrivederci”, cantata in Inglese da Chet nel film “Urlatori alla sbarra” appartiene comunque alla mia memoria italiana, non fosse altro per quello charme disarmante nel pronunciare “arrivederci” e per l’indimenticabile Solo in malinconico Cool Jazz Style in quel bel filmetto di Lucio Fulci girato nel 1960, nel quale comparivano, come simpatici giovanotti disobbedienti (macché disobbedienti…), Adriano Celentano, Joe Sentieri, Peppino di Capri e Mina; Italietta scandalizzata dai costumi libertini (macché libertini…) che la brava borghesia inorridita (macché inorridita…) amava così tanto aborrire nei salottini gozzaniani delle “buone cose di pessimo gusto”.  Per dovere d’informazione, Chet cantò in Italiano “So che ti perderò”,“Chetty's lullaby” e anche altro, però è un altro discorso…

Il brano ha avuto nel corso degli anni grande notorietà, cantato nel 1959 con qualche esitazione stilistica da Don Marino Barreto e da Mina nel 1984, da Ornella Vanoni, Fred Bongusto, Caterina Valente, da Claudio Baglioni in un’avventata dizione pop, e poi da tanti altri; splendida nel sussurrato swing di Nicola Arigliano e nell’intimismo da ”night club” del grande  Bruno Martino; bellissima nello stralunato monologo di Enzo Jannacci. Ma nessun paragone è possibile…

Musica di Giorgio Calabrese (che di successi ne fece tanti) e soprattutto Testo di Umberto Bindi, esponente della scuola genovese con Gino Paoli, Fabrizio De André, Bruno Lauzi, Sergio Endrigo e Luigi Tenco, allontanato dall’Italietta perbenista per la sua esecranda omosessualità. Il Bindi che ricordiamo nell’omaggio di Gino Paoli e Danilo Rea al Festival di Sanremo 2014 (che una volta tanto sarebbe servito a qualcosa) nel quale, prima di cantare “Il nostro concerto”, Paoli disse di lui come "uomo gentile, buono e un grande artista, massacrato, deriso umiliato e poi dimenticato". Vero, era un grande artista. Ma nessuno come Chet l’avrebbe mai cantata con la leggerezza di quel cuore di Poeta, con la maledetta sensibilità della sua anima.

Quando uscì il film avevo 15 anni, capii poco del Genio di Chet; so solo che mi sorprese perché cantava diverso, e diverso appariva nel filmetto, quasi un presagio di quel che sarebbe stata la sua vita, diversa, molto e forse troppo diversa. Qualunque musicista italiano io abbia incontrato e che abbia suonato con lui lo ricorda ancora con l’affetto e lo stupore con i quali ogni tanto me lo immagino, vestito scuro e paradossali sandali marroni, nei  corridoi stretti di quella Roma sotterranea e incantata, poetica e sincera, vera e mite e diversa, così diversa da perderci ancora il fiato.

Il tuo sorriso disarmante, i tuoi occhi buoni, il tuo Correre Senza Tempo.  

No, nessun Addio, caro Chet.

Arrivederci

dammi la mano e sorridimi

senza piangere

Arrivederci …

Egozero

 

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