montserrat caballé, una rilettura (Domenico M. Morace)

MONTSERRAT CABALLE': UNA RILETTURA

La recente scomparsa della grande soprano spagnola, secondo alcuni una delle vere ultime dive se non l'ultima, per i fans seconda solo alla Callas, almeno in certi ruoli, merita differenti tipi di considerazioni.

Da ex venditore di Lp  e Cd, e da studioso di canto, potrei semplicemente sintetizzare la sua migliore parabola artistica tra la Lucrezia Borgia RCA del 1966 e la Tosca Philips del 1976 con Colin Davis, dove notavo i primi segni di un incipiente prosciugamento dello splendido smalto vocale degli anni precedenti. 

Penso anche un’altra cosa, a cui fanno forse caso in pochi: la presa di suono. Decca e RCA di quegli anni erano la quinta essenza della sonorità operistica, indipendentemente dalla qualità delle orchestre e dei direttori(spesso molto variabile). La voce di Montserrat Caballé, registrata in studio sotto altri marchi ne soffriva alquanto, non tanto in volume, quanto il colore, e calore, sopra a tutto nella seconda parte, diciamo così, della sua carriera internazionale. 

Altra caratteristica di questa protagonista era una tendenza già presente negli anni più luminosi, a "cantarsi addosso", come avevamo notato in parecchi. Tendenza che con gli anni si è ahimè stabilizzata ed estesa. Intendiamoci, quando sentiamo la Manon Lescaut del '71 con Bartoletti, il Don Carlo con Giulini del '70, la Norma strepitosa di Orange del '74 (preceduta da una quasi altrettanto strepitosa della Tournee della Scala al Bolshoi del '74), la Liù con Mehta nel '72, l’ Aida del '74 con Muti, la presenza di direttori molto esperti/di personalità, e colleghi di non minore spessore, porta, in tutti questi casi, la  cantante a impegnarsi a fondo e dare il meglio di sè non solo in materia di puro canto e smalto lucente, ma anche di interpretazione. 

Nella superba Norma di Orange (ma, insisto, ascoltate anche su Youtube la contemporanea live Melodya a Mosca), questa Norma "fa testo", perché si è trovata una sua strada tra la potenza e l'eloquio tragico indimenticabile della Callas, e la lunare mistica di immateriale malinconia della Sutherland 1964. La sua è stata giustamente definita una Norma di incandescente lirismo, e a Orange si compie un miracolo di una spagnola, un magnifico mezzo soprano inglese (la Veasey) e un tenore canadese (l'immenso Jon Vickers), supportati da un eccellente Patanè (grande direttore d'opera italiano condannato a un lunghissimo nomadismo, come a noi italiani piace spesso, con quel virus di autocompiacimento distruttivo nel nostro dna, vedi anche l'ottimo Molinari Pradelli a Mosca, in Italia semi sconosciuto, non fosse che per certe registrazioni Decca: ma, al solito, a Londra ci stava John Culshaw che registrava perle). 

In Manon Lescaut,  in Turandot (più come Liù), in Don Carlo, in Aida,  in Luisa Miller, in certo Donizetti , questa cantante offre in questi anni grandi interpretazioni e in più arie torna a "fare testo", quando viene pungolata a rimuovere il connaturato narcisismo e a inventarsi quella via alternativa che l’ha resa grande. 

Poi, consolidata la fama internazionale appunto intorno alla metà degli anni '70, accade qualcosa, in verità più cose. Da una parte la coscienza di essersi eccessivamente spesa, come presenza in tantissimi teatri, e che lo strumento comincia a risentirne. Ma, in possesso di un’ottima e solidissima base tecnica, ecco lampeggiare l'idea: selezionare meglio il repertorio, dosarsi di più nelle presenze, e curare al massimo il registro medio e grave, alla condizione di dilatare i tempi anche di molto, per raccogliere al meglio la voce prima del passaggio in acuto. 

Il progetto non sarebbe affatto male ma c’è un "effetto boomerang", la sensazione di artificio, i  direttori compiacenti a dilatare i tempi, e ancora il cantarsi addosso. Prima la Caballè, poi Tosca, prima la Caballé, poi Elvira dei Puritani, prima la Caballé  poi Maddalena in Andrea Chenier, prima la Caballé...sempre...quasi. 

Nel '77 registra con Bernstein un’interessantissima scena finale di Salomè, che aveva fatto dieci anni prima con Leinsdorf, originalissima e ammaliante. Nell'84 si inventa una Adalgisa giovinetta per la Decca, tutta tenuta su un fil di voce tenerissima ed emotiva, vera illuminazione del personaggio. Ma è anche una superbamente lirica Semiramide nell'80 duettando prodigiosamente con una stratosferica Horne. 

Ci vogliono partners di potentissima personalità, e allora, anche con acuti accorciati e usurati, esce fuori di nuovo l'interprete "che fa testo". 

Ultimamente su Youtube si vede e si sente di tutto. Io ho finora cercato di parlare dell’artista a volte superlativa, e di quella meno superlativa. Ma su questo sito internet ci sono nastri video e audio riversati che immalinconiscono, degli ultimi/ultimissimi anni, che non avrei voluto vedere e sentire. 

Lo sconfinamento nel Pop può essere stata una bombola di ossigeno che ha continuato a mantenere in vita un personaggio, ma resta una cosa inaccettabile per un vero appassionato di Opera: vale per la Caballé, per l'ultimo Pavarotti, mentre non vale per Domingo enormemente più coerente, e anche vocalmente longevo (merito della "cura Wagner" dalla fine anni '70, lo racconterò una altra volta...a proposito delle boiate del tipo che Wagner ammazza e stronca le voci) 

Un ultimo consiglio, per chi volesse seguirlo. Guardatevi la Norma di Orange '74 in DVD o anche attraverso gli spezzoni su Youtube; poi, su Youtube cercate la Norma a Macerata 1982, che si vede da cani ma si sente discretamente, e fate poi le vostre considerazioni su voce e interprete. Otto anni dopo. Certo la Callas del '52 a Londra è vocalmente mostruosa (ma già ottima interprete insisto); e quella del '60 Emi è vocalmente  molto compromessa; ma l'interprete ti strazia l'animo. 

Personalità diverse e grandissime, scelte a volte discutibilissime, a volte anche suicide. Ma  presenze incancellabili nel canto lirico del '900. 

Domenico Maria Morace

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