intervista a roberto magris. Elogio della discrezione jazzistica:l'arte di vivere le blue notes

Intervista a Roberto Magris

Elogio della discrezione jazzistica: l’Arte di Vivere le Blue Notes.

Ambasciatore in pectore delle Blue Notes italiane nel mondo, il musicista triestino ha inciso più di 30 album e suonato in 42 Paesi dei cinque continenti e collaborato con artisti straordinari.  Più volte definito come uno dei più interessanti pianisti bop/post bop in attività in virtù del suo stile fluido, accattivante, elastico e  profondo, Roberto Magris è direttore musicale della prestigiosa etichetta JMood Records di Kansas City. Un jazzista con idee sempre in movimento, simpatico (empatico) e affabile.

D.Ormai è da tempo che alterni la tua presenza tra Italia e Stati Uniti: Italia centro affettivo e USA centro artistico?

R. Sì, vivo a Trieste e da qui mi muovo sia in direzione USA che in direzione Praga, che è il mio punto di riferimento privilegiato in Europa. A Praga infatti ha sede il MUH/Magris-Uhlir-Helesic Trio, che è la formazione con la quale mi esibisco abitualmente in Europa. Va detto comunque che a Trieste, a suo tempo, avevo fondato e diretto l’Europlane Orchestra, l’orchestra jazz permanente dei Paesi centro europei. Negli USA svolgo attività da diversi anni. In un primo periodo ho gravitato sulla scena jazz di Los Angeles per poi passare a Kansas City, dove ha sede la JMood Records e vive il mio promoter e produttore Paul Collins, a Miami, Chicago, St. Louis, Omaha, Des Moines, Milwaukee ecc. Negli USA suono ed incido di norma con formazioni a mio nome, proponendo la mia musica, il che è un grosso motivo di soddisfazione ma anche di impegno, visto che opero in un contesto in cui sono oggettivamente un “outsider”. Tutti questi anni di esperienza negli USA mi hanno dato la possibilità di confrontarmi e verificarmi costantemente sul campo, crescendo anche come leader.

D. Quale differenza tra essere jazzisti in Italia ed essere jazzisti negli Stati Uniti? Siamo alle solite “fughe di cervelli”?

R. In realtà non lo so bene perché io non sono un prodotto della scena jazz italiana, che ho praticato quando ero più giovane soprattutto nell’area del cosiddetto Tri-Veneto, suonando invece regolarmente in Austria, Germania, Slovenia, Croazia, Rep. Ceca, Ungheria e poi un po’ dappertutto in giro per il mondo. Posso dirti che essere jazzisti negli USA non è facile e che l’ambizione è spesso quella di farsi un nome per poi fare l’insegnante o l’artista in residence presso qualche Università americana di prestigio, ed avere così un buon stipendio fisso ed anche un riconoscimento di tipo accademico, che sembra oggi essere particolarmente ambito e segno di “essere arrivato”. Il mondo cambia e quello del jazz anche….

D. Indubbiamente la tua attività di direttore artistico per la J.M. arricchisce anche le tue Blue Notes, a mio parere, come si avverte anche dal tuo ultimo album. Ce ne parli?

R. L’ultimo album uscito è World Gardens che è un lavoro con il mio trio di Kansas City più percussioni, che conclude un trittico iniziato con “Enigmatix” e poi proseguito con “Need to bring out love”. Sarà poi in uscita, il 1° novembre prossimo, Sun Stone nel quale sono a capo di un sestetto che comprende oltre al sassofonista Mark Colby, al trombettista Shareef Clayton, al contrabbassista Jamie Ousley ed al batterista Rodolfo Zuniga, il leggendario multistrumentista Ira Sullivan, oggi ultraottantenne ma ancora in ottima forma e vitalità artistica. L’album è stato registrato ai Criteria/Hit Factory Studios di Miami lo scorso anno, con corollario di concerto alla WDNA Jazz Gallery, ed ha preso una direzione a volte piacevolmente bluesy proprio grazie ad Ira ed al suo flauto, memore a volte di Roland Kirk, con il quale aveva collaborato ed inciso negli anni 60. Ira si alterna al flauto, sax contralto e soprano e se la cava con una invidiabile verve, alla sua rispettabile età.

D. Credi che la tua esperienza con tanti eccellenti artisti americani possa essere estesa, come esperienza, anche ai musicisti italiani? Cosa pensi di questi ultimi? Sono davvero pronti per un panorama internazionale?

R. Guarda, non sono in una posizione di giudicare ed anzi, molto modestamente, pur giunto a 60 anni devo capire ancora io molte cose. I musicisti italiani più noti - i primi nomi che mi vengono sono Rava e Pieranunzi - sono assolutamente affermati da decenni sulla scena del jazz internazionale, se lo meritano perché suonano ad altissimo livello e quindi il problema è già risolto; anzi non si pone nemmeno, visto che ce ne sono diversi altri. Per quel che riguarda me, anche in questa fase della mia vita/carriera, suonerei ed inciderei volentieri pure con musicisti italiani, se qualcuno me lo proponesse, il fatto è che non succede. Idem per la mia presenza ai festival jazz italiani. Pazienza, prima o poi capiterà..

D. Molti brani dei tuoi album sono a tua firma, e non sono solo omaggi ai più grandi Maestri dell’Hard Bop. Posto il Pathos e la Verve delle tue scritture Originali, a chi senti più vicina la tua Anima Jazz?

R. Sai, il jazz è una musica spirituale. Più spirituale, secondo me, e più in contatto con i piani superiori dell’esistenza, rispetto ad altre musiche. C’è una ricerca del Bello che passa per un senso di positività, a volte anche in opposizione a vite vissute in maniera dissennata. Un’ evoluzione verso un risultato, un fine musicale (ed individuale?) più elevato. A volte, ascoltando i dischi dei maestri, ho l’impressione che loro mi abbraccino, abbraccino l’ascoltatore con la loro musica. Io cerco di abbracciare chi mi ascolta e portarlo, per quanto possa essere in grado di farlo, nel mio mondo musicale e personale cercando di attingere – quasi come un “medium” – da un mondo superiore di bellezza, positività, sincerità, armonia. Si tratta quasi di compiere un rito, il rito della musica; in questo caso, musica jazz. E non ho in mente solo Coltrane, ma anche Parker, Duke, Monk, Mingus. C’è un aspetto fisico esteriore, l’ascolto della musica, il jazz, ma c’è anche un aspetto più profondo, umano, che interviene e ne è alla base, ed è quello che cerco sempre di trovare e, possibilmente, consolidare. Sono ancora lontano dal riuscirci, semmai ci riuscirò, ma comunque ci provo, al di là di quel che poi effettivamente l’ascoltatore può concretamente ascoltare, percepire, apprezzare.

D. Una domanda sicuramente gradita ai nostri lettori: quali sono i dischi che più hai amato e che ti hanno maggiormente formato musicalmente e umanamente?

R. Questa è una gran bella domanda perché mi consente di spiegare in modo diretto il mondo musicale da cui provengo e che ancor oggi è presente, per certi versi, nel mio essere musicista e compositore. Il primo disco jazz che ho ascoltato nella mia vita, da giovane pianista classico, è stato “The way I really play” di Oscar Peterson, che ancor oggi rimane uno dei miei preferiti di Peterson. E da lì, “pianisticamente catturato”, sono rapidamente passato al jazz. Gli altri dischi “chiave” per me sono stati “Africa Brass”, “A love supreme” e “Giant Steps” di Coltrane, “The Black Saint” di Billy Harper, “At The Golden Circle Vol. 1 e 2” di Ornette Coleman, “Oh Yeah” e “Ah Hum” di Mingus, “Chapter Three/Viva Emiliano Zapata” di Gato Barbieri, “In A Silent Way” e “Kind of blue” di Miles Davis, “Blues For The Viet Cong” di Stanley Cowell, “From Sweden With Love” di Art Farmer, “One for One” (con gli archi) di Andrew Hill, “The Awakening” di Ahmad Jamal, “Time for Tyner” di McCoy Tyner, “In pursuit of the 27th man” e “Tokyo blues” di Horace Silver, “Other Folks Music” e “I talk with the spirits” di Rahsaan Roland Kirk, tutte le registrazioni di Charlie Parker, e poi Lee Morgan, Yusef Lateef, i Jazz Messengers di Art Blakey, Wayne Shorter su Blue Note; per il jazz europeo “Shaman Song/Samanenek” di Janos Gonda, “Trio HLP” (Humair/Louiss/Ponty) di Jean-Luc Ponty, “Sevil” e “Jazz Compositions” di Vagif Mustafa Zadeh… e sicuramente “Welcome” di Carlos Santana, “Long May You Run” di Crosby, Stills & Nash, “Electric Ladyland” di Jimi Hendrix.

D. Vista la poliedricità delle tue attività mi sento quasi imbarazzato a chiederti quali siano i tuoi progetti per il futuro. Ma lo faccio ugualmente…

R. Ai primi di luglio sarò artist in residence al “Summer Jazz Festival Krakow” in Polonia, dove ho in programma due concerti. Poi in ottobre ci sarà il mio usuale tour autunnale in Centro Europa con il MUH Trio di Praga ed a novembre sarò a Chicago per concerti e per registrare un album in duo assieme al contrabbassista Eric Hochberg dedicato alla musica di alcuni compositori afroamericani (Billy Gault, Cal Massey ecc.), partendo da Eubie Blake; in chiave moderna ovviamente. Poi ho già “in tasca” 2 ulteriori Cd belli pronti che la JMood farà uscire a partire dall’autunno del 2020, uno dal titolo “Suite!” – che ritengo il punto di arrivo della mia carriera musicale – sempre registrato a Chicago in sestetto, ed uno dal titolo “Match Point” dalle colorature lievemente “latin jazz” registrato a Miami. Se a qualche lettore magari sarà venuta la curiosità, se già non mi conosce, segnalo che, con il permesso della JMood, sono stati recentemente caricati su YouTube alcuni miei album in versione integrale, tra cui “World Gardens”, “Live in Miami”, “Enigmatix”, “An Evening with Herb Geller”. Per cui, visto che questa è una rivista, si tratta soltanto di cambiare pagina…

Fabrizio Ciccarelli

Già pubblicato su Music Magazine, anno IV, n.2,  giugno 2019

 

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