duke ellington in concerto-dino betti van der noot

Duke Ellington: In Concerto

Ricordo perfettamente l’emozione provata quando, una sessantina di anni fa, ho assistito per la prima volta a un concerto di Duke Ellington e della sua orchestra al Teatro Dal Verme, abbastanza lontano dal palco contrariamente a tutte le volte successive, quando mi sono trovato regolarmente in prima fila. Un’emozione che non mi permetteva di analizzare compiutamente quello che si svolgeva sul palcoscenico, perché ero sovrastato dalla meraviglia di poter ascoltare (forse in quel caso dovrei dire semplicemente “sentire”) dal vivo un’orchestra e dei musicisti che per me erano diventati mitici attraverso l’ascolto reiterato di dischi, spesso condiviso con amici appassionati o con persone che desideravamo convertire al jazz. Perché il Duca è stato un fenomeno quasi unico: sicuramente un grande compositore, ha convissuto tutta la vita con l’esigenza di fare cassetta e la volontà di fare una musica sua, innovativa, che andasse oltre alla routine e allo spettacolo obbligatori.

 Forse, l’origine di tutto questo va ricercata in una sua affermazione: la decisione di voler diventare un pianista in quanto aveva notato che, alle feste, la ragazza più bella se ne stava sempre appoggiata al pianoforte, vicino a chi lo suonava. Il Duca aveva un io decisamente importante e sentiva il bisogno di primeggiare, anche perché aveva una chiara coscienza del proprio valore come intellettuale e come artista. Per questo era diventato da subito un leader, mettendo insieme – allevando, in un certo senso – un gruppo di musicisti di cui aveva intuito e sviluppato il talento. Un gruppo che, sia pure con vari cambiamenti dovuti a salute e anagrafe, gli è stato, magari anche forzatamente, fedele negli anni.

Credo sia inutile che io mi metta ad analizzare qui la musica di Ellington: tutto, e di più, è già stato scritto da musicologi e storici del jazz. Mi basta dire che Mood Indigo è a mio avviso un capolavoro assoluto della musica del Novecento: per la sua essenzialità, per la capacità di avvolgere l’ascoltatore in una nuvola di emozioni dall’inizio alla fine, per l’utilizzo consapevole e sapiente degli strumenti e degli esecutori. Mi sembra invece che possa interessare qualche ricordo dei concerti cui ho assistito negli anni. Del primo non potrei dire molto: probabilmente ero sopraffatto dall’emozione e, in ogni caso, non ero ancora abbastanza consapevole di quello cui davvero stavo assistendo. Ricordo Ray Nance al violino, l’entrata di Billy Strayhorn per sostituire Ellington a un certo punto, la doppia cassa della batteria di Sam Woodyard. Dei concerti successivi, invece, ricordo quasi ogni particolare; sia di quelli in cui agiva soltanto l’orchestra sia di quelli in cui si aggiungeva Ella Fitzgerald.

Il nucleo di brani più atteso era sempre quello delle composizioni storiche, da Sophisticated Lady a Concerto for Cootie. Ogni volta, però, c’erano delle novità, come per esempio la Far East Suite, che interessavano tuttavia soltanto una parte del pubblico. Tutti aspettavano Diminuendo & Crescendo in Blue, con la prestazione di Paul Gonsalves: un esempio non soltanto della potenza di quella musica e dei solisti, ma anche del rapporto fra Ellington e i suoi sidemen. Infatti, questo brano durava più o meno a lungo a seconda di come si era comportato Gonsalves: una sorta di punizione per i suoi ritardi (spesso arrivava sul palcoscenico a concerto iniziato) e per le sue sbronze: l’ho visto più volte dormire beatamente nei momenti in cui non doveva suonare. Devo dire che aveva un certo stile nel dormire, perché aveva messo a punto una tecnica del sonno con il bocchino del sassofono pronto vicino alle labbra e, quando gli altri attaccavano, automaticamente attaccava anche lui. Infatti, spesso i musicisti suonavano a memoria, senza neppure guardare le parti: il marchio di una routine continua e massacrante che noi non riusciamo neppure a immaginare. Una stanchezza che una volta, durante la parte di esibizione riservata a Ella e al suo trio, non solo ha visto Gonsalves dormire, ma lo ha fatto cadere dalla sedia con un fracasso notevole, sotto gli occhi interessati ma impassibili dei suoi colleghi e provocando una risata seguita da un’alzata di spalle della cantante.

 Credo che proprio i rapporti di Ellington con i suoi musicisti siano stati in parte mitizzati e in parte sottovalutati. Non erano idilliaci, tranne in qualche caso, come per esempio con Harry Carney, intelligente e perfettamente conscio dei propri limiti e della propria funzione nella storia dell’orchestra. Se guardiamo bene, nessuno dei sidemen ellingtoniani ha avuto una grande fortuna al di fuori dell’orchestra del Duca. Perché? Erano sicuramente musicisti importanti, ma l’impronta che avevano ricevuto impediva loro di esprimersi in maniera completa e personale una volta usciti da questo ambiente protetto.

Un esempio per tutti, quello di Johnny Hodges: una voce essenziale per la poetica ellingtoniana, un caposcuola, che non è mai riuscito a sfondare davvero per conto proprio. Astioso nei confronti del leader, ma in un certo senso anche nei confronti del pubblico: lo si poteva percepire nel suo sguardo sprezzante durante gli assoli, pochi e sempre simili, se non addirittura ripetuti integralmente. I musicisti sapevano di dovere tutto a Ellington, ma sapevano anche di essere utilizzati allo spasimo; però proprio questa conoscenza delle loro caratteristiche e questo sfruttamento (alla base di molte composizioni ellingtoniane ci sono intuizioni dei sidemen) hanno fatto della musica del Duca qualcosa di irripetibile.

Quando il nucleo storico ha dovuto arrendersi all’età, niente è più stato come prima: l’ultimo concerto cui ho assistito è stato durante la sua penultima tournée italiana e ancora cerco di cancellarlo dalla mente. Meglio conservare il ricordo di tutti quelli precedenti, con Harry Carney che batteva il piede per far partire Take the “A” Train, con il Duca che entrava fra gli applausi, con Paul Gonsalves che raggiungeva i colleghi a metà di un brano (fortunatamente il suo posto era il più esterno nella sezione), con Cat Anderson che ripeteva nota per nota il suo assolo in El Gato, con Ellington che affermava perentoriamente: «This is jazz».

Dino Betti van der Noot

[pubblicato su Music Magazine, anno VI, n.21, dic.2021]

NDR: ringraziamo del prezioso contributo uno dei jazzisti più creativi e liberi, un perfetto maestro di orchestral skills

purchase