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Il Futuro e la Memoria

Intervista a Franco d’Andrea

 

Fra i più importanti pianisti contemporanei e innovatore di indubbio talento, il Maestro meranese continua a dar importanti lezioni di stile in perfetta coerenza con quel Sound di Ricerca che da sempre distingue la sua attività di musicista e di didatta, come dimostrano i suoi Piano Solo [in particolare Nuvolão (Carosello 1978), Solo 5 – Duke ( Philology 2001), Plays Monk - Live At Metastasio Jazz  (Philology 2003)]. Franco D’Andrea ha inciso più di 200 dischi: non facile segnalare ai lettori le sue prove più significative. In ogni caso, in disordinato ordine affettivo, vorrei ricordare album che hanno dato alla scena internazionale una nuova Idea delle Blue Notes: i 5 col Perigeo [specialmente Azimut (RCA 1972), Abbiamo tutti un blues da piangere (RCA 1973) e La valle dei templi (RCA 1975)], Ballads and Rituals (Philology 1997), Standards of the Big Band Era, Chapter 1 (Philology 2002), ed i recenti  Monk and The Time Machine (Parco della Musica Records 2014)  e Three concerts. Live at the Auditorium Parco della Musica (Parco della Musica Records 2015), unitamente alle performance dal vivo del suo attuale quartetto con il sassofonista Andrea Ayassot, il bassista Aldo Mella ed il batterista Zeno de Rossi. Ho occasione di parlarne con lui e, con lui, ripercorrere una Memoria jazzistica veramente straordinaria.

d. Quanto è cambiato il suo modo di concepire il jazz nel corso della sua vita artistica?

r. Fondamentalmente, non è cambiato moltissimo: la prima sensazione la ebbi ascoltando un disco di Louis Armstrong: fu come un’intuizione rispetto alla sostanza di una musica che mi è immediatamente entrata nel cuore.

d. Gato Barbieri, Modern Art Trio, Perigeo, il Trio Current Changes, il suo Quartetto col sassofonista Andrea Ayassot, il bassista Aldo Mella ed il batterista Zeno de Rossi…potrebbe mai scegliere i momenti più intensi?

r. Difficile da dire. Ogni esperienza porta con sé momenti importanti. Ricordo, però, quando avevo meno di 30 anni e stavo andando a registrare un disco con il Modern Art Trio. Si trattava di un lavoro sperimentale, in cui cominciavo a esprimere qualcosa di veramente mio. Ero felice, quasi una sorta di gioia preventiva rispetto al disco che stava nascendo. Con Perigeo, invece, ricordo bene un concerto a Firenze in cui ci esibimmo davanti a 30.000 persone: la sensazione fu molto bella, così come il concerto. Avevo chiara la sensazione che il pubblico fosse con noi. Per quanto riguarda Gato Barbieri, ci sono una miriade di circostanze in cui ho provato profonde emozioni. In particolare, ricordo un concerto al Purgatorio, (una sorta di succursale del famoso ristorante Meo Patacca) attorno al 1964-1965. Nel gruppo c’eravamo io, Gato, Enrico Rava, Gianni Foccià e Gegè Munari. Ricordando quell’esperienza, non posso che trovarmi d’accordo con Enrico Rava quando disse che Gato era stato per noi, a tutti gli effetti, l’Università. Ricollego a quel periodo e ad altre esperienze analoghe (come tutte quelle vissute al Music Inn e al Folkstudio), una grande spensieratezza e, allo stesso tempo, l’impressione che stessi facendo qualcosa di molto speciale. Un ricordo indelebile ma più attuale, invece, risale a circa 10 anni fa, è un concerto con il mio quartetto a Bolzano in cui ci fu una svolta. Era dal ’97 che suonavamo insieme e avevamo un repertorio molto consolidato e una grande compattezza che ci permise in quell’occasione di suonare senza una scaletta definita, ma solo scambiandoci dei segnali musicali. La cosa, incredibilmente funzionò, e poi diventò il nostro modo di operare sul palco.

d. Trovo “coraggiosa”, originale ed estremamente espressiva la sua scelta del Trio con Mauro Ottolini al trombone e Daniele D'Agaro al clarinetto (“Traditions Today” /Trio Music Vol. III, Parco Della Musica Records ‎2017). Spazio di ricerca o necessità di affermare un Jazz esteticamente ampio e complesso per le esigenze innovative che, mi sembra, da sempre avverte necessarie per il suo percorso di musicista?

r. È un gruppo particolare, senza sezione ritmica, con un pianoforte che tende ad essere il punto di riferimento ma che, in virtù della lunga esperienza che abbiamo maturato, può anche “farsi da parte” per far sì che ci si scambi i ruoli. In questo trio si è consolidato l’aspetto legato alla tradizione, agli anni ‘20 , a un periodo durato troppo poco anche in virtù dei bruschi cambiamenti socio-culturali dell’epoca. Nell’assenza di “privilegi” per strumenti solisti, nella grande voglia di interplay e nel colore di quell’epoca mi ci rivedo molto. Chiaramente questo è realizzato dai musicisti in un’ottica di contemporaneità.

d. Mi sembra che lei abbia inciso più di 200 dischi, ricordando collaborazioni con straordinari musicisti quali Lee Konitz, Phil Woods, Dave Liebman, Slide Hampton, Max Roach, Frank Rosolino, Pepper Adams, Johnny Griffin, Jean-Luc Ponty. E’ un privilegio offerto solo a pochissimi, e per questo le chiedo di donarci, di questi maestri, i ricordi più presenti nella sua memoria….

r. Ascoltando Frank Rosolino mi resi conto di quanto lui fosse radicato in un modo di concepire la musica totalmente in “acustico”: potenza, completezza del suono e la capacità di farlo viaggiare nell’aria il modo completamente diverso rispetto ai moderni, che danno per scontata l’amplificazione. Allo stesso modo, ascoltando Don Byas e Phil Woods a distanza ravvicinata e in uno spazio ridotto, mi fu chiaro come sapessero far arrivare il suono a destinazione, senza perdere niente della sua qualità.

d. Credo che a rappresentare il suo Jazz parte essenziale sarebbero album in Solo, scelta per cui ha già optato. Cosa induce ad incidere per Piano Solo?

r. Il pianoforte è uno strumento orchestrale, autosufficiente, quindi perché non usarlo in questa funzione? Oltre a tutto nel piano solo la libertà è massima.

d. Lei collabora con la Scuola Civica di Musica di Milano nell'ambito dei Civici Corsi Jazz, che personalmente considero magnifica iniziativa, quasi unica in ambito italiano. Perché questa sua scelta e quale esperienza per il suo modo di intendere Musica e condivisione culturale? All’interno di questa riflessione le chiedo: cosa è cambiato dagli ascoltatori degli anni 1970-1990 a quelli del nuovo millennio?

r. La prima parte della domanda ha a che vedere con la didattica. Prima dei miei 40 anni, mi fu proposto di insegnare jazz. All’inizio ero titubante. Così, mi rivolsi a Filippo Daccò per avere un consiglio. Era un chitarrista molto forte nella didattica, nonché una persona molto sincera e diretta. Incredibilmente lui mi rispose “Perché no?” e io lo presi come un lasciapassare. Insegnare è una cosa molto complessa, significa colmare delle lacune che ci si può permettere di avere quando si suona, carenze che possono essere aggirate grazie a una concezione personale della musica. A un allievo bisogna, invece, dare una visione completa, in modo che sia lui a scegliere in che direzione andare. Alla Civica di Milano ci sono arrivato dopo diverse esperienze didattiche, tra cui quella importantissima di Siena e quella al Conservatorio di Trento. Ora insegno pianoforte e gli allievi con cui mi confronto sono di diversi livelli: quelli molto forti, a cui devi dare solo qualche accorgimento, e altri che non conoscono benissimo il linguaggio del jazz. I veri talenti sono pochi e, quando nascono, sono facilmente individuabili. La seconda parte della domanda richiederebbe una risposta molto articolata. Posso solo dire che gli ascoltatori di oggi mi sembrano più coscienti del significato del linguaggio jazzistico, grazie alla maggiore diffusione di questa musica nel mondo (scuole di jazz, concerti, dischi).

d. Personalmente considero di grande valenza storica e di assoluta bellezza musicale l’esperienza del Perigeo, purtroppo interrotta troppo presto alla luce di ciò che avrebbe potuto offrire per l’evoluzione del jazz italiano anche a livello “popolare” . C’è speranza di un ritorno che in tanti attendiamo?

r. Quella del Perigeo è stata per me un’esperienza importante all’interno di un ventennio di grande sperimentazione, in cui ho esplorato tutte le opportunità che il jazz poteva offrirmi. Quando Giovanni Tommaso mi propose di far parte di questo progetto elettrico, su questo versante venivo da ascolti che mi avevano molto emozionato: su disco Miles Davis (Bitches Brew, Live Evil ecc.) e dal vivo uno speciale gruppo di Jean Luc Ponty con al piano Joachim Khun, in cui si fondevano aspetti funky e free. La proposta quindi era interessante. Il gruppo nacque e vissi per cinque anni un’esperienza di una speciale intensità e magia.

d. Dovessi invitarla a tenere una Lectio Magistralis, le chiederei di rivelarci i segreti di Lennie Tristano, Thelonious Monk e di Duke Ellington. Sarebbe d’accordo sulla scelta?

r. Sono tutti musicisti di grande valore, che ho frequentato in periodi diversi della mia vita, imparando a individuare ciò che mi sarebbe piaciuto e servito per creare un mio linguaggio. Tristano è stato uno tra i primi che io abbia mai ascoltato, fa parte del mio background anche se non ho mai provato a emularlo. Di lui mi rimase impresso soprattutto un brano intitolato Turkish Mambo, molto innovativo e interessante, che coniugava improvvisazione e poliritmia: tre brevi frasi scritte in metri diversi alle quali si univa la sua improvvisazione in 4/4. E’ un giocattolo musicale molto ingegnoso, che continua a darmi stimoli. All’inizio degli anni ‘80, invece, suonavo con Enrico Rava e lui mi chiedeva talvolta sonorità scure: provavo ad andare giù, nel medio-basso, preferibilmente con la sinistra e lì c’era Monk con i suoi insegnamenti. Nello stesso periodo avevo ripreso in mano delle cose del vecchio jazz e composto fra l’altro un brano dal titolo Rag and Blues, un pezzo moderno in cui erano presenti Monk e la tradizione.Nel 1995, più o meno, entrai nella lunghezza d’onda di Ellington. Questa presa di coscienza coincise, tra l’altro, con il mio periodo di insegnamento al conservatorio, quando incominciai a confrontarmi con gruppi allargati di musicisti nella musica d’insieme. Capii che Ellington all’interno di una grande orchestra aveva sfruttato enormemente le potenzialità dei singoli elementi, ottenendo, con una grande intuizione, un suono molto colorato e jazzisticamente rispettoso dell’individualità.

d. I suoi ultimi tre album incisi dal 2014 per l’Auditorium Parco della Musica: un jazz viscerale e, più che meditativo, introspettivo. Forse sono queste le Blue Notes del suo Futuro? E può darci delle anticipazioni sui suoi progetti?

r. Il mio prossimo progetto discografico consiste in due album che ho registrato in ottetto, una formazione costituita dai musicisti con i quali abitualmente lavoro da anni e che sono stati importantissimi collaboratori perché io potessi realizzare la musica delle mie ultime esperienze discografiche. Ad essi si è aggiunto Enrico Terragnoli, un innovativo chitarrista, avventuroso e con familiarità con l’elettronica. Gli album si chiameranno “Intervals I” (in uscita a gennaio) e “Intervals II” (che uscirà in autunno). I due capitoli saranno rispettivamente la registrazione di un recente concerto all’Auditorium Parco della Musica e la registrazione di vari brani durante le prove. Il primo disco avrà, quindi, l’impronta tipica del concerto, con la sua onda, mentre il secondo è una raccolta di brani inizialmente disseminati casualmente durante le registrazioni, a cui ho dato un ordine. Si tratta di due opere diverse, ma accomunate da una musica densa e nuova, sia per aspetti timbrici, visto che coniuga l’acustico con l’elettronica, ma anche per l’uso massiccio di strutture che fanno capo a un particolare sistema di combinazione di intervalli a cui lavoro da tempo.

Fabrizio Ciccarelli

 

PS: Ringrazio l’Ufficio Stampa Guido Gaito per l’affettuosa e fattiva collaborazione.

PS 2: Articolo già pubblicato su Music Magazine,III,1(gennaio 2018)

 

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